Hypnosis

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"Occorre mettere in chiaro che l'ipnosi non è quel fenomeno da baraccone per cui qualcuno si mette ad abbaiare, a pigolare, a beccare per terra come se fosse una gallina. L'ipnosi non può costringere nessuno a cambiare la propria natura. O ad agire contro la propria volontà. Non è così che funziona."

Riflettendo meglio su quanto aveva detto il professore durante la seduta, mi accorsi che già da quella primissima frase, apparentemente innocente, era cominciata la suggestione. Perché dicendo «Non è così», il professore aveva suggerito che, in un qualche altro modo, magari sconosciuto, l'ipnosi di fatto funzionasse. E con l'apparenza di rassicurarmi, in realtà stava solo preparando il campo all'idea che, presto o tardi, non ci sarebbe stato modo di resistere.

Ma queste sono speculazioni che ora non mi aiutano. Perché, mentre guardo la porta della camera d'albergo, sono in ansia per ogni rumore. Come questo, di una macchina che ha appena frenato facendo stridere le gomme. Magari ha frenato solo per non investire un cane. Piove. La sera è fredda e sembra che non ci sia nulla di sensato da fare ma che tutti aspettino già che arrivi domani.

Io non sono tranquillo. Non so che cosa mi succeda. Sono convinto che qualcosa sia accaduto anche se non saprei dire che cosa. È stupido, vero? Eppure mi sento questa cosa, qui, sul petto. Un peso enorme. Come se avessi commesso qualcosa di imperdonabile. Qualcosa che, per quanto mi sforzi, proprio non riesco a ricordare.

Allora ripenso al professore da cui ieri sono andato per la mia prima seduta di ipnosi. E pensare che mi ero presentato tutto baldanzoso, tutto fiero di essere una persona strutturata. Un carattere razionale.

"Non è detto che questo sia un limite. Anche le persone intelligenti e di cultura possono riuscire ad entrare in trance. Quando ne hanno davvero bisogno. A tutti noi capita, a volte, di scoprire risorse nel momento giusto. Risorse che nemmeno sapevamo d'avere."

Ecco che il professore l'aveva fatto di nuovo. Aveva dato un altro obbiettivo al mio inconscio, senza che me ne rendessi conto, sul momento. L'obbiettivo di entrare in trance ipnotica, come se fosse qualcosa che la mia parte inconscia doveva cercare di raggiungere. Non come se il successo o l'insuccesso del tentativo ricadessero in qualche modo su di lui.

"I ricordi sono qualcosa di labile. Ognuno di noi, lo sappia o no, potrebbe acquisire falsi ricordi. Potrebbe cominciare a ricordare, che so?, di essere stato disteso su un bel prato per un giorno intero. E bearsi di questa sensazione. Oppure di aver dato da mangiare ai piccioni nel parco. O di aver pescato le trote nel torrente, da mattina a sera.

Questo tipo di percezioni non coincidono necessariamente con quello che abbiamo visto. Così come non sono soggette alla nostra volontà cosciente. Ma si trovano a galleggiare, come schiuma, sul mare del nostro inconscio. Dove noi potremmo, se necessario, cercare di sospingerli in qua e in là."

"Necessario a che cosa, Professore?"

La mia domanda lo incuriosì. E non escludo, da una minuscola esitazione della sua voce, che in qualche modo si fosse anche pentito delle proprie parole. Quasi che, sentendosi eccessivamente sicuro di sé, si fosse spinto oltre. Quasi che avesse sottovalutato l'avversario. Va aggiunto, però, che io non ero l'avversario di nessuno. Tanto meno del famoso terapeuta a cui mi ero rivolto a seguito di una grossa crisi di nervi che mi aveva gettato in un profondo stato di prostrazione, da cui faticavo a riavermi.

La pioggia cadeva sulle scale antincendio. Da un punto invisibile gocciolava insistente sopra una lamiera. Le luci delle insegne di fronte lampeggiavano con i loro rossi, i loro viola e i loro verdi elettrici dentro la mia camera lasciata al buio.

In qualche modo, mi sembrava di aver ucciso qualcuno. Una donna. Provavo un cupo senso di colpa, un disagio inesprimibile di fronte a questo frammento di ricordo. Io uccidere qualcuno? Ma andiamo: che cosa ci poteva essere di più inconciliabile con la mia persona? Era chiaro che doveva trattarsi di un ricordo che non mi apparteneva. Un intruso. Un corpo estraneo.

Non sapevo nemmeno chi fosse quella donna il cui volto appariva a volte dentro la mia mente. L'unica cosa che potei stabilire con certezza era che, seppure non sapessi chi fosse, si trattava di un volto che avevo già visto. Più precisamente l'avevo visto in un portaritratti sulla scrivania del professore. In tutti i miei ricordi, il portaritratti era rivolto verso il professore e io ne potevo vedere solo il retro. Solo una volta il professore lo girò verso di me. In quell'unica circostanza, ricordo che il professore sorrideva con aria lontana. E io non potevo vedere i suoi occhi.

Sentii dei passi affrettati nel corridoio, davanti alla mia camera. È strano come i passi rimbombino nei corridoi degli alberghi. Forse è a causa del silenzio che normalmente li abita. Il silenzio di un non luogo.

Ecco che stavo scivolando di nuovo dentro i miei pensieri inconcludenti quando i passi, con la stessa fretta con cui erano arrivati, corsero via. Del resto, perché preoccuparsi? Nessuno sapeva che ero qui. E anche se qualcuno l'avesse saputo, io non avevo fatto nulla di male. A parte qualche sogno bislacco, che nessuno poteva conoscere.

Quando il poliziotto bussò alla porta, la cosa mi stupì come quando si scalcia alla fine di un sogno agitato. Per quale ragione mi ero convinto che avrebbe dovuto sfondare la porta, invece che bussare? La sola idea della porta che cadeva, magari alzando una nuvola di polvere, e della sagoma scura del poliziotto che si stagliava contro la luce abbagliante del corridoio, mi fece sorridere.

Andai ad aprire e mi trovai di fronte un agente obeso, sudato, con minuscoli baffetti, uno leggermente più corto dell'altro. Quella visione era così ridicola che per poco non gli scoppiai a ridere in faccia. Capivo benissimo che non era opportuno. Cercai disperatamente di aggrapparmi a qualsiasi appiglio per non cedere alla tentazione. Guardai il suo collega, rimasto un passo indietro, come a trovargli addosso le ragioni per rimanere serio. Ma questo aveva una faccia così triste, ma così triste, che proprio non ce la feci più. E mi misi a ridere in modo talmente incontrollato che caddi al suolo, con la pancia che mi faceva male e gli occhi pieni di lacrime.

Quando mi riebbi dalla mia improvvisa follia, ero ammanettato sul letto. Il poliziotto mi stava facendo passare davanti agli occhi la foto di una donna. Era la donna che ricordavo di avere ucciso.

Calma. Occorreva andare con calma. Io non avevo fatto nulla. A parte sbellicarmi dalle risate, cosa sicuramente fastidiosa ma non certo grave.

"L'ha mai vista, questa donna?"

"Sì."

I poliziotti si guardarono come se la mia risposta fosse un punto a loro favore. Un punto ottenuto con pochissimo sforzo. La cosa non mi turbò perché ero convinto di poter ristabilire facilmente la situazione.

"Deve essere la moglie o comunque una conoscente del professor..."

Il mio cuore ebbe un sobbalzo. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a ricordarmi come si chiamasse il professore. Vuoto. Buio totale.

"Il professore... da cui sono in cura."

Ebbi un'illuminazione.

"Ma voi sicuramente mi stavate pedinando. Quindi sapete bene a chi mi riferisco!"

I poliziotti rimasero perfettamente immobili. Il che poteva significare qualsiasi cosa. Io però decisi di prenderla come una conferma:

"E allora saprete anche che ieri sono stato per tutto il giorno nello studio del professore. Ora, d'accordo che in questo momento non mi viene in mente il suo nome, ma avrete visto anche voi..."

Il poliziotto obeso, con un vago sorriso, mi gelò:

"Ma di quale professore sta parlando? Lei è sotto sorveglianza da un pezzo. E le posso dire che non ha mai incontrato alcun professore. Ieri, ad esempio, è stato tutto il giorno al parco, a lanciare briciole ai piccioni. "

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