Diagnosi

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A volte penso che sarebbe piaciuto molto a Matthew vedere il mare. Sentire l'odore della salsedine, delle conchiglie, i versi dei gabbiani. Gli sarebbe piaciuto almeno quanto piaceva a me. Da bambina mi sarei seduta per ore sulla sabbia. Mi sarei rannicchiata contro le mie ginocchia fino a perdermi dentro il movimento delle onde, senza bisogno di altro.

Matthew non può nemmeno avvicinarsi al mare, perché gli farebbe male. Certo, potrebbe resistere, potrebbe soffrire un poco per vederlo. Ma io mi sono sempre chiesta quanto davvero per lui potrebbe diventare un piacere o quanto il piacere che proverebbe sarebbe solo dato dall'avermi accontentato.

Con lui abbiamo deciso, fin da quando era molto piccolo, che saremmo stati saggi, che non avremmo fatto sciocchezze. Faremo tutto con calma e come si deve. Lavoreremo bene prima per trovarci bene anche dopo, una volta che saremo diventati grandi. È la lezione di fare i giusti sacrifici, di fare prima il dovere e poi il piacere. E Matthew, devo ammettere che è una lezione che ha fatto sua fin dalla prima volta che l'ha ascoltata.

Mio figlio sorride spesso. Per cui io mi convinco facilmente che quello che facciamo vada bene, che abbia un senso questo starsene sempre così in disparte, come un piccolo bambino saggio. O il fatto che lui cerchi sempre i miei occhi prima di rispondere alla gente, come se io dovessi vegliare su ogni sua parola, su ogni suo contatto col mondo.

Oggi della sua malattia non si può ancora vedere nulla. I primi sintomi non dovrebbero vedersi prima dei dieci anni. Venti se siamo fortunati. Eppure la malattia è un ospite che già da tempo condivide la nostra esistenza e ci accompagna, giorno dopo giorno. Un ospite così ingombrante che il mio ex-marito non ha ritenuto che, in famiglia, ci fosse posto per tutti e quattro e si è fatto da parte. Ma noi non smetteremo per questo di fare il nostro piccolo lavoro ogni giorno. Sempre.

E se, per questo, mio figlio non diventerà uno di quei bambini con la pelle abbronzata che profumano di sale, con lo sguardo sfrontato e il ciuffo ribelle, me ne farò una ragione. Se non potrò scompigliare i suoi capelli in una cosa che dovrebbe essere un rabbuffo, mentre è fin troppo palese come sia una carezza, sarà solo perché mio figlio io lo posso accarezzare quando voglio. Senza dovergli nascondere il mio gesto.

Ecco, magari non proprio sempre. Ma almeno molto spesso. Perché ci sono anche momenti in cui Matthew mi dice semplicemente che non ha piacere, che vuole stare da solo. Magari in camera sua a sfogliare uno di quei libri sugli insetti che a me fanno una certa impressione mentre a lui piacciono così tanto che ormai deve conoscerli a memoria.

Capisco bene che mio figlio, ora che è un po' più grandicello, a volte sia nervoso, che arrivi a farsi prendere dallo sconforto. E che voglia starsene chiuso nella sua stanza a disegnare. Non lo critico se diventa un po' sgarbato ed arrogante, lui che è sempre stato un bambino gentile ed ammodo.

Per permetterci di superare questi momenti bui, abbiamo inventato un gioco. Forse non è corretto definirlo un gioco. Per noi è più una regola. Un po' come quelle che inventano i bambini quando decidono di non poter calpestare le linee fra le piastrelle, o le ombre, o le zone bianche degli attraversamenti pedonali. Perché chi lo fa muore!

Per noi questa nuova regola è un'ancora di salvezza, un luogo sicuro delle nostre menti in cui sappiamo di poterci rifugiare. Gli abbiamo persino dato un nome, lo abbiamo chiamato: il Parolaccere.

Ho costruito una piccola scatola di cartone. Una tempo ero molto brava in questo genere di cose. Non è una scatola molto grossa. È un cubo della dimensione di un pugno, con una fessura sul lato superiore. Quando io o mio figlio ci sentiamo stanchi e arrabbiati, quando abbiamo voglia di insultarci, di gridarci in faccia qualsiasi cosa, di imprecare contro il mondo intero, allora ci siamo dati la regola che possiamo scriverlo. Soltanto scriverlo, niente di più. Ma siamo liberi di usare tutte le parole che evitiamo di dire, per quanto siano brutte e irripetibili. E una volta che abbiamo riempito il foglio dei nostri peggiori insulti e delle nostre maledizioni, ecco che li infiliamo dentro il Parolaccere. Perché solo a lui erano destinate.

Nessuno può leggere, in nessun caso, che cosa c'è scritto in quei biglietti. Le pareti di cartone sono un limite invalicabile. E questa è la regola più importante. Perché altrimenti quello che abbiamo scritto tornerebbe indietro e noi non ce ne saremmo realmente liberati. Sarebbe come aprire un aspirapolvere e rimettere in circolo tutto lo sporco che aveva accumulato. E lanciarlo verso l'alto, sperando inutilmente che non finisca per caderci nuovamente in testa. Non avrebbe senso.

Ogni volta che la scatola è piena, non facciamo altro che buttarla nel cestino della carta, sostituendola con una scatola nuova. Poi aspettiamo, senza dirci nulla, che arrivi il giorno di raccolta per vederla sparire. È evidente quanto poi ce ne sentiamo sollevati. Perché le nostre silenziose rivolte, in quel modo, non hanno lasciato alcun segno. Sono sparite come se non fossero mai state.

Una sola volta, in un momento di tristezza, ho scritto, in un bigliettino per il Parolaccere, una cosa che non era un insulto. Era un pensiero che mi perseguitava da giorni e giorni. Forse da anni. Forse ha cominciato il suo lavoro di scavo dentro la mia coscienza molti anni fa e solo negli ultimi tempi è venuto allo scoperto nella mia coscienza.

Ho scritto la frase che da tempo mi stava rodendo il fegato:

"E se la diagnosi fosse sbagliata?"

Mai come quella volta sono stata contenta, la mattina presto, di sentire il camion per la raccolta della carta che si aggirava, pesante e rumoroso, sotto casa mia. E che svuotava i contenitori al suo interno. E portava tutto quanto via lontano.

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