Lavorare bisogna

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"Non serve che sei gentile coi clienti. Va beh: gentile il giusto, niente di più."

"E cosa serve allora?"

"L'importante è che ti fai vedere che corri. Gli importa solo questo. Lo so: sembra stupido ma è così."

La cameriera nuova non fece in tempo a chiedere se stesse scherzando che il padrone del locale, vedendoli fermi a parlare, cominciò ad irritarsi. Franco prese il vassoio e partì al galoppo. La nuova sparì in cucina. Ma non era stata una grande idea. Nemmeno il tempo di rendersene conto che già il padrone spalancava la porta.

"Non ti pago per battere la fiacca, stellina. Su, non farmi innervosire. Hai visto quanta gente c'è oggi? Abbiamo anche la musica dal vivo. Dai, dai, dai!"

Visto da vicino, il padrone del locale faceva una certa impressione. Era completamente calvo. Aveva la testa liscia come una palla da biliardo. E sudava abbondantemente, nonostante cercasse di continuo, con il fazzoletto, di mantenere un aspetto presentabile.

Dopo una giornata al Lago, la gente veniva a cena al ristorante. Le signore vestivano elegante. In un angolo una cantante di mezza età sfoggiava grossi occhiali argentati, grossi anelli e un trucco vistoso. Ma forse il microfono non era all'altezza, dato che la sua voce si sentiva a malapena. Per il disappunto del proprietario.

Spedita in sala la cameriera, il padrone andò lui stesso ad accogliere i clienti, indirizzandoli verso i tavoli vuoti. Per un attimo guardò di traverso il barman, che, secondo lui, aveva sbagliato di nuovo un'ordinazione. Lo si capiva da come cercava di gridare: «Via!» nel tentativo di dar la scossa ai camerieri. E da come quelli poco dopo, inevitabilmente, tornassero indietro rettificando quello che avevano portato via col vassoio. Il padrone non aspettava altro:

"Me lo spiegate perché abbiamo preso tutta sta roba elettronica per far le ordinazioni col tablet, se nemmeno con quello si riesce a venirne a capo e a capire davvero chi sbaglia e dove sbaglia?"

In fondo alla sala, sembrò quasi che il cuoco si mettesse a ridere, a sentirli battibeccare. Buono quello. Che neanche gli si poteva dire nulla, lui e la sua stramaledetta brace per il pesce che venivano da fuori provincia per assaggiarlo. Non che fosse uno chef stellato, che quello delle stelle è tutto un imbroglio, e che sarebbe costato troppo, a parte tutto. Ma la cosa delle braci faceva così caratteristico che in poco tempo si era sparsa la voce. E toccava tenerselo, con il carattere permaloso, la giacchetta intonsa e la fissazione di portare la toque sulla testa, dai meno venti ai più cinquanta gradi.

Quando la serata arrivò finalmente a metà, la nuova cameriera uscì a prendere una boccata d'aria. Ma trovò che anche Franco era uscito per una sigaretta.

"Scusa. Non sapevo che c'eri già tu fuori."

"Lascia. Tanto ora rientro."

Lei sorrise per la cortesia. In fondo era l'ultima arrivata.

"Tanto l'importante è correre, no?"

"Certo: correre! E non toccare le bottiglie della grappa. Nemmeno se te lo chiede lui."

"In che senso?"

"Le hai viste, vicino al bancone? Ecco: quelle lasciale perdere. E se si sognasse di dirti: «Portamele», tu digli che non ne sei capace. Dai retta."

Non ci fu tempo di aggiungere altro perché il padrone era di nuovo sul piede di guerra. Ora era una cliente ad averlo fatto irritare.

"O santo cielo! C'è quelli che han caldo, quelli che han freddo. E io cosa ci posso fare se non vi mettete prima d'accordo fra di voi? Questa aria condizionata, cosa ci devo fare? La alzo? L'abbasso?"

Visto l'andazzo, la nuova fece il giro dalla parte opposta ed entrò nel locale che già correva, per benino, con un'ordinazione in mano, un sorriso grazioso e un «Eccomi!» così squillante che i clienti sorrisero riconoscenti. Il padrone annuì soddisfatto. Salvo poi avanzare di un passo verso il barista che aveva sfiorato col gomito le bottiglie di grappa.

"Ma l'hai visto cosa stavi per fare?"

I camerieri se la risero sotto i baffi e corsero via, il più lontano possibile, mentre il padrone controllava i suoi tesori. Erano tre bottiglie lunghissime, dalle estremità rastremate, lunghe un metro e mezzo. Normalmente rimanevano in verticale contro un appoggio di legno, che già ad appoggiarcele si aveva sempre paura che scivolassero sul pavimento. Quello sì sarebbe stato un guaio. A parte il costo. Sarebbe stato un guaio soprattutto perché poi che cosa avrebbe offerto, il padrone, a fine cena, agli ospiti?

All'inizio era stata una cosa come un'altra, l'astuzia di un fornitore, una trovata pubblicitaria di una distilleria. Tanto che, all'epoca, il padrone si faceva pagare per la grappa. Ma presto era diventata una cosa diversa. Perché il padrone non la vendeva più: la regalava. Pur di essergli entrati in simpatia, di non aver messo troppa fretta ai camerieri che trottavano, sì, il giusto, ma dovevano farlo col sorriso sulle labbra, come se fossero stati i ragazzi della squadretta di calcio del paese e spronarli era un po' compito di tutti. Non roba da avere il muso, da essere impazienti o, peggio, lamentarsi per il riscaldamento, per l'aria condizionata o la puzza di pesce. Che se uno viene in un ristorante sul lungolago, cosa si aspetta di trovarci: odore di tartufo?

Se invece gli si andava a genio, ecco che il padrone si asciugava la pelata, sorrideva e diceva:

"Aspetta, che lo so io quello che ci vuole."

Sfilava la bottiglia dall'incastro e arrivava trionfante alla tavolata. Quindi puntava i bicchieri delle signore, che invariabilmente rifiutavano, e poi quelli degli uomini, che la trovavano sublime. Per forza, con tutta quella prosopopea si passava per superficiali a non apprezzare.

E via che i camerieri correvano e correvano. E a fine serata, nonostante il sudore per quelle braci del diavolo, ancora prima di fare i conti di cassa, sembrava di aver fatto qualcosa. Di aver vissuto un'altra giornata come si deve. Che questo è il lavoro e non siamo nati ricchi di famiglia. Lavorare bisogna.

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