L'incendio

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Da quando la sorella lo aveva chiamato, dall'ospedale, a Pietro era sembrato che qualcosa fosse scattato. «Dai nudi giunchi della morte immaginata...» Come diceva più il verso della canzone? Non riusciva a ricordarlo. Eppure migliaia di fans ne avrebbero saputo dire a memoria ogni parola, ne avrebbero canticchiato la melodia, l'intonazione, persino le fortuite varianti capitate durante i concerti.

Pietro non si era precipitato all'ospedale. Non c'era più nessuna ragione di precipitarsi. Ormai quel tempo era passato. Suo padre era passato. Affrettarsi non aveva più senso.

Fino al funerale fu tutta una tirata di quelle cose fastidiose e necessarie, quel senso del dovere che rende vecchi. Non avrebbe saputo dire nemmeno lui quante mani avesse stretto, aspettando soltanto, dietro mezzi sorrisi, che tutto passasse. Si sentiva come carta stropicciata. Non ha senso sperare che possa mai più tornare intatta. Non succede.

Passato il clamore, erano venuti giorni strani. Come svegliarsi con un gusto amaro in bocca, dopo una malattia. Pietro, ogni mattina, si accorgeva di avere un pensiero fisso in testa. Un'idea che stentava a prendere forma, ma che non lo abbandonava, ostinata, opprimente. Aveva la sensazione che ci fosse qualcosa ancora da sistemare, qualcosa di cui soltanto lui si sarebbe potuto occupare.

Sua madre non era voluta tornare in quella casa in cui avevano abitato tutti insieme, quando lui e sua sorella erano bambini. La casa in cui suo padre aveva poi vissuto con la seconda moglie. E la seconda famiglia. Almeno fino all'ennesima separazione e gli ultimi anni di vita solitaria. A sua madre era bastato chiamarli «i secondi» per chiudere ogni conto in sospeso con la propria coscienza. E con il proprio senso di rivalsa. Non era vero che al funerale avesse loro sorriso, come riportavano i giornali, con gran sollievo dei fan: semplicemente si era sempre rifiutata di avere su di loro una qualsiasi notizia e così non li aveva riconosciuti.

La vecchia casa odorava di medicinali. Aveva le tapparelle abbassate. Chissà chi le aveva abbassate, si chiese Pietro. Ma poi cominciò subito ad aprire ogni cassetto, ogni armadio, ogni anta. Senza avere in mente nulla, senza cercare nulla in particolare.

Suo padre era uno di quelli che, se avessero potuto, non avrebbe mai buttato via nulla. Anche se poi, di tutto quello che conservavano, non se ne facevano oggettivamente nulla. A malapena si ricordavano di averlo conservato. Meno che mai: dove l'avessero messo. Gli bastava sapere che c'era, da qualche parte. Questa cosa li rassicurava. Mentre la loro casa diventava a poco a poco un deposito di cose inutili.

Per questo Pietro fu sorpreso dell'ordine che trovò quando scoprì la sua collezione privata di cimeli. Certo la sua immagine pubblica era quella di un artista distaccato dal mondo. Ascetico, come qualcuno l'aveva definito, per la sua scarsa propensione a disfarsi di vestiti che non fossero almeno consunti. Ma era pigrizia di andarsene a comprare di nuovi, si dicevano in casa. Altro che.

Trovare una stanza così ordinata e catalogata fu una cosa che Pietro proprio non si aspettava. C'erano molte lettere, qualche fotografia. Ma erano fotografie all'incontrario, cioè inviate e firmate dai suoi fan. Sembrava una specie di gioco. Forse lanciato da lui stesso, forse nato per caso.

Trovò le lettere del periodo in cui lui si era rotto il braccio. Suo padre, vedendolo arrivargli incontro con il gesso e il braccio al collo, aveva cambiato colore. Gli aveva fatto una scenata terribile, di cui ricordava ancora l'imbarazzo e la frustrazione. Non si erano parlati per un mese intero. Sua madre aveva cercato di smorzare il loro litigio prendendolo in disparte e dicendogli:

"Perché si è preoccupato per te. È stato molto in pensiero."

A lui quelle parole non erano mai sembrate altro che unire al danno della scenata, la beffa di farlo sentire colpevole.

Verso sera Pietro finalmente capì che cosa stava cercando. Era uscito sul balcone, si era stiracchiato. Si era acceso una sigaretta, guardando il viale sottostante. Il sole stava calando dietro le case, fra mille riflessi dorati. Sembrava un incendio.

A quella parola, nella sua mente scattò qualcosa. L'Incendio era la canzone più famosa di suo padre. Quella per cui un Professore aveva proclamato che fosse un peccato che i cantanti non potessero essere ammessi all'Accademia dei Lincei. Tanta era la poesia, tanta era l'umanità che impregnava la canzone. Un capolavoro del novecento italiano.

S'era molto scritto su quello che era successo, sull'episodio da cui aveva tratto, come si dice, l'ispirazione. Non solo articoli su giornali e riviste di musica. Persino un paio di libri parlavano dell'argomento. Tutti lo definivano con sicurezza ispirato a un fatto reale. L'avevano descritto come un momento toccante di paura, una visione netta e indimenticabile della fragilità della vita umana.

Il che era vero. Davvero era successo un incendio, Pietro lo ricordava distintamente. Anche se era molto piccolo. Era estate, erano al mare. Era forse proprio quel ricordo la cosa che stava cercando, in mezzo alle carte, alle lettere, alle fotografie.

Arrivato alla soglia dei quarant'anni, non si sentiva più addosso la ribellione della gioventù, non attribuiva più a quel ricordo la responsabilità di poter ancora cambiare qualcosa, nella sua vita. Non avrebbe spostato le sue speranze, non avrebbe ridefinito i suoi affetti. Addirittura arrivava a dubitare della verità di quello che credeva di ricordare. Chi poteva dire che non fosse soltanto un sogno, un incubo penetrato così dentro alla sua anima da confondersi con i suoi stessi ricordi?

Perché lui ricordava distintamente la casa in fiamme. E sua madre che teneva il padre per un braccio, mentre lui cercava di scappare fuori dalla porta, in mutande, con la chitarra in mano. E quel grido:

"I bambini! Dobbiamo prima prendere i bambini!"

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