15. Le regole del gruppo

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«Farò io la guardia stanotte. Non dormirei comunque, tanto vale rendermi utile» disse Tomas, grattandosi la testa. Era seduto ai piedi di una grande quercia, adagiato su un trono fatto di radici. I capelli castani gli coprivano gli occhi rossi e gonfi per la polvere da sparo e la stanchezza. Aveva l'aria abbattuta, sconfitta, ma allo stesso tempo ogni fibra del suo corpo era tesa come una corda di violino, pronta a scappare, lottare per la propria sopravvivenza, sparare e uccidere.

Proprio per questo non sarebbe riuscito a dormire quella notte.

Nessuno obiettò.

«Riposate. So che sarà difficile prendere sonno, però dobbiamo sforzarci perché alle prime luci dell'alba riprenderemo il cammino. Quindi niente storie. Riposate tutti. Tomas, quando non te la senti più, svegliami pure. Eva.» Il suo sguardo ghiacciato la illuminò, il tono di voce si abbassò, in modo che fosse udibile quasi solo a lei. «Resta qui, vicino a me. Guai a te se ti allontani. Ho giurato che non ti avrei mai più persa di vista.»

Eva si sdraiò ubbidiente vicino al comandante. La notte era buia e più rumorosa del solito. Ebbe quasi la tentazione di avvicinarsi ancora un po'...

Aveva paura. Un terrore cieco, totalizzante. Si sentiva soffocare dall'ansia. E quell'istinto di accostarsi a lui, di stargli appresso, di nascondersi dietro la sua schiena, la imbarazzava a morte."Stupida, stupida, stupida che non sei altro!" si ripeteva, stretta nella giacca militare, per frenare quei brividi di freddo, quel tremito incessante che non era dovuto alla temperatura esterna, ma a quella interna.

Si sentiva sporca. Tutti lo erano: sudati, impolverati, avevano addosso l'odore della foresta, della terra, della polvere da sparo, delle macerie, del fango, della paura.

Le braci del fuoco cominciavano a raffreddarsi. Sarebbe stata una notte lunga e fredda. Quel pensiero mortificava tutti ma nessuno osò chiedere di riaccendere le fiamme.

Ormai faticavano a vedersi tra di loro, la luce della luna era flebile come una torcia lontana lontana e il cielo era sempre più nero, sempre più oscuro.

Si distesero, il volto speranzoso rivolto alla volta stellata. Quel momento era sempre stato rassicurante, perché il paesaggio in cielo era simile a quello che scorgevano dagli oblò della loro arca. Simile, non uguale: non c'era una luna così grande, nemmeno le fronde degli alberi, i rami stecchiti, le nuvole e, soprattutto, non c'era tutto quel rumore.

Eppure, di notte tornava visibile l'universo, il loro universo. Allora con lo sguardo fiducioso, i ragazzi cercavano tra quei puntini luminosi, tutti così simili tra loro, la loro casa.

Sarebbe stato rassicurante vedere almeno una delle trentasei città galleggianti, almeno la loro luce, da così lontano. Immaginare i propri cari che si apprestavano a dormire, o che ancora dovevano preparare la cena, che si facevano una doccia veloce o che cominciavano il turno a lavoro, i bambini che andavano a scuola, i professori che preparavano le lezioni, le stiratrici che timbravano il cartellino, le guardie che bevevano un caffè durante la pausa.

Ma, se osservato con attenzione, quell'universo diveniva assurdamente diverso dal "loro".

Non era lo stesso. Stelle, costellazioni, pianeti: era tutto sbagliato, confuso, scomposto. Irriconoscibile.

Chiudevano allora gli occhi per non venire assorbiti da quel terrore, quell'angoscia disperata.

Ci siamo persi.

Siamo persi.

Persi.


UMANA ∽ Ritorno sulla TerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora