28. Prigionieri

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 «Se volevate fare quattro chiacchiere, bastava dirlo prima!» proruppe Tomas, col suo solito tono beffardo.

La bastonata arrivò senza preavviso, dritta nello stomaco. Il ragazzo si contorse in uno spasimo, Shani gridò e la situazione sarebbe velocemente degenerata se l'urlo di Ulrik non avesse sovrastato ogni altro rumore.

«BASTA!» tuonò, con un tono deciso, da uomo. Il suo gruppo si silenziò all'istante. Nemmeno Tomas emise più gemiti di dolore.

Gli aggressori si guardarono l'un l'altro.

Oltre il loro comandante, la donna con la coda di cavallo e gli occhi viola, c'erano altre due femmine. Una era minuta, la pelle come il carbone e i capelli quasi rasati a zero; l'altra era invece molto alta, di costituzione robusta, con poche forme e molti muscoli, un mento aguzzo e un naso aquilino. Anche lei portava i capelli cortissimi.

Tra gli uomini c'era un ragazzino che sembrava non avere più di quattordici anni. Se ne stava dietro le fila, con lo sguardo basso, sembrava molto spaventato. Era stato l'ultimo a togliersi la maschera, ma teneva ancora la pistola in mano, senza sicura.

Poi c'era il bestione che aveva fermato Eva. Senza maschera non faceva più così paura. Era enorme, circa un metro e novanta per almeno duecento chili, non solo di muscoli. Ma il suo sguardo era assente. Aveva la testa sproporzionatamente piccola rispetto al resto del suo corpo, radi capelli biondi, occhi sottili e azzurri e un naso da porcellino. Fissava il vuoto come se la questione non lo riguardasse, in attesa di ordini specifici. Teneva ancora in mano la doppietta e un rotolo di corda, ma aveva entrambe le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Gli altri due sembravano due fotocopie, da tanto erano simili. Erano gli unici che condividevano la stessa uniforme militare mimetica, con una bandiera a stelle e strisce sul braccio destro. Uno aveva indossato una maschera antigas inquietante, con due grossi tubi che uscivano dalla bocca, l'altro invece un semplice caschetto, una bandana sulla bocca e occhiali spessi, scuri. Erano di media statura, spalle larghe e capelli corvini. Uno dei due teneva una mazza in mano e la palleggiava distrattamente sulla gamba sinistra. Era stato lui a colpire Tomas.

«Presumo di dovermi rivolgere a te, allora. Sei il capitano?" Gli chiese, con voce melliflua, la donna con la coda di cavallo.

«Sì» rispose telegrafico Ulrik.

«Bene bene.» Si accovacciò sulle ginocchia, per poterlo guardare meglio negli occhi. «Iniziamo allora. Da dove venite?»

«Arca K-030.»

La mazzata lo colpì all'addome, prima che potesse reagire. Tossì un po', sputò a terra e poi tornò a guardare la sua interlocutrice dritto negli occhi.

«Abbiamo iniziato male, tesoro. Forse avrei dovuto avvertirti: ogni cazzata che esce dalla vostra bocca, sarà punita severamente. Ok? Bene bene, ricominciamo. Una domanda più semplice, il tuo nome, tesoro.»

«Ulrik.»

«Ulrik, ottimo. Ora Ulrik, io mi chiamo Thea e ho poco tempo da perdere. Ok? Ogni minuto che qui, metto a rischio la vita dei miei ragazzi. E questo non mi piace. Quindi te lo ripeto, da dove venite?»

«Lo ripeto anch'io: Arca K-030.»

Questa volta il colpo gli prese il braccio, era riuscito a contorcersi in tempo

«È la verità! Siamo in missione per l'Arca K-030, in soccorso dei sopravvissuti dell'Arca M-015! Abbiamo ricevuto il loro messaggio e...»

Questa volta le bastonate furono due.

Thea rimase nella stessa posizione, con la fronte corrucciata e le labbra serrate. Sembrava spazientita.

«Da. Quale. Città. Venite» scandì, sempre più irritata, fissandolo dritto negli occhi.

UMANA ∽ Ritorno sulla TerraWhere stories live. Discover now