44. Rivendicazione

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«Umana.»

Quante volte, nei suoi incubi, aveva sentito quel richiamo? Quante volte si era svegliata ansimando, madida di sudore, col fiato corto e il battito a mille? Quante volte quel ricordo traumatico l'aveva paralizzata, tormentata, afflitta e intimorita?

Ora lui era lì. Davanti a lei.

Non era lo stesso essere che l'aveva aggredita in città.

Indossava un giubbotto antiproiettile sopra la pelle nuda. Il suo volto tumefatto, sebbene privo di orifizi, era meno sfigurato di quello che l'aveva preceduto. La testa, glabra, era attraversata da una fitta trama di vene nere, il collo, rachitico, lasciava intravedere le ossa sottostanti mentre la bocca, larga a sdentata, priva di labbra, si contorceva in una smorfia di soddisfazione simile a un sorriso.

«Sei un'Umana» constatò. Le si avvicinò, annusando con l'enorme foro che aveva al posto del naso l'aria attorno alla ragazza. «Lo sento dall'odore, sai? Sangue. Sento l'odore del tuo sangue ferrugginoso.»

Eva non gli rispose.

«Umana, sai chi sono io?» Il suo volto ora era a un palmo da quello della ragazzina.

Di nuovo l'Umana non gli rispose.

«Sono come un Dio, per te, sono qua da prima che tu nascessi. Da prima che le tue arche salpassero alla deriva, nello spazio, abbandonandoci al nostro tetro destino, condannandoci a un inferno senza fine.»

Eva ebbe come un déjà-vu. Le aveva già sentite quelle parole, quei deliri.

Per quanto tempo si erano raccontati quella storia? Quanto gli ci era voluto per crederci davvero? Questi pensieri li avevano salvati? O li avevano condannati a una vita di ruminazioni?

«Mi dispiace per quanto ti è accaduto, Antico» replicò.

Le parole della ragazzina, ferme e decise, riverberarono in quell'essere senza anima.

Per un attimo il silenzio tornò a regnare nella tenda buia, mentre fuori i suoi amici lottavano tra la vita e la morte.

«Ti dispiace, Umana? Ti dispiace?» Il tono dell'essere era sarcastico.

«Mi dispiace e ti chiedo perdono» confermò Eva, senza interrompere il contatto oculare.

Il mostro era enorme rispetto a lei, alto almeno due metri e mezzo. Le sue braccia, ora che era chino sulla ragazza, sfioravano il pavimento.

«Cosa me ne faccio, io, del tuo perdono, Umana? A cosa serve il tuo perdono se non puoi espiare i tuoi peccati? A cosa serve il perdono se non puoi far cessare il mio dolore?»

Una lacrima sfuggì dagli occhi cangianti della fanciulla.

«A nulla. Oppure a tutto. Forse a fare pace con te stesso, con la persona che sei diventata. Riconciliarti con il tuo passato, con il torto che hai subito. Non dico dimenticare, ma voltare pagina, iniziare una nuova vita, libera dal bisogno di vendetta, dai ricordi intrisi d'odio, dalla sete di rivendicazione.»

«E perché dovrei, giovane Umana? Perché dovrei cedere al perdono, quando sono sopravvissuto sfamandomi di odio allo stato puro per tutti questi anni?»

«Perché stai soffrendo, Antico. Io lo vedo quanto soffri!» gemette la ragazza.

L'Antico la fissò senza proferire parola per svariati minuti.

Era stato un uomo anche lui, molto tempo prima. Aveva avuto una moglie e una figlia. Il fantasma del suo passato era però fragile e sciupato: non ricordava più i loro volti, tantomeno le loro voci. Non ricordava più cosa volesse dire, essere una "persona". Sapeva che un tempo aveva vissuto una vita ordinaria, alzandosi ogni mattina per recarsi a lavoro in auto, tornando a casa la sera tardi, per cenare con la famiglia, col sottofondo del telegiornale sempre acceso, che annunciava qualche nuova pandemia, un golpe dall'altra parte del mondo, i danni causati da un uragano, un attacco terroristico, un'esondazione poco distante da dove abitavano i suoi genitori. Eppure non ricordava come ci si sentisse, cosa si provasse, a essere vivi. Amore? Gioia? Serenità? Benessere? Si sentiva realizzato? In pace con se stesso? Aveva davvero mai esperito quelle sensazioni? Non ne serbava memoria.

UMANA ∽ Ritorno sulla TerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora