•Capitolo XXII

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Sollevo il braccio e lo lascio cadere a peso morto, fin quando la mia mano si scontra contro il comò, e il trillo che martoriava le mie orecchie finalmente si arresta. Dannati incantesimi celati... avevo persino dimenticato come fosse straziante risvegliarsi in un tale modo. So bene che aver prolungato per qualche minuto il mio riposo non mi frutterà nessun beneficio, oltre a essere inutile, però assaporo ogni istante che riesco a guadagnare tra le coperte prima che uno stuolo di camerieri irrompa nella mia camera.

Dopo qualche secondo – o almeno così mi pare, non sono molto lucida – qualcuno bussa alla porta, e io mi apro in un rantolio assonnato e rauco, come se qualcuno stesse graffiandomi la gola. Sollevo il busto e combatto con tutte le mie forze l'impulso di collassare sul materasso.

È passata quasi una settimana da quando sono tornata a palazzo, e mi sento, contro ogni preavviso, allegra.

Saltello giù dal letto attingendo dai rimasugli di energie che mi sono rimaste in corpo e mi dirigo di fronte allo specchio, passando le dita tra i miei capelli in un vano tentativo di sciogliere i nodi che me l'intrecciano. Il bussare alla porta diventa sempre più insistente e allora mi decido ad aprire.

— Chi è? — mastico. Di fronte a me ho Alya e Thomas in forma splendente: mi sorridono in un modo quasi forzato mentre mi accorgo che forse non sono in una forma così splendente: solo adesso noto le occhiaie violacee che circondano gli occhi del mago e i capelli spettinati dell'altra.

— Ehi! — strilla Alya, con un tono di voce così alto da farmi sussultare.

— Che ci fate qui? Non potete venire nella stanza della Principessa a disturbare... — mormoro, lanciando uno sguardo all'orologio in camera mia, — alle sei di mattina! Siete pazzi!

— Scusate, Principessina — mormora Alya, trattenendo a stento uno sbuffo. Cosa che non riesce a fare con il sopracciglio, che s'inarca verso l'alto. — Ordini superiori.

Mio padre... sono troppo stordita sia per alterarmi, sia per chiedermi cosa diavolo voglia da me. Non mi preoccupo nemmeno di cambiarmi, così mi dirigo a passo pesante verso l'ufficio di mio padre, ma appena svolto l'angolo lo trovo di fronte a me, immobile come una statua. — Padre — sussurro, con voce stridula. — Sono le sei di mattina! — mi lamento proprio come una bambina.

— Preparati in modo dignitoso e soprattutto velocemente, abbiamo delle commissioni da fare.

Involontariamente inarco un sopracciglio. — Perché, vorresti dire che ora non sono dignitosa? — replico, con le braccia serrate al petto.

— Sei in biancheria intima, Abigail.

Anche questo è vero.

— Ebbene? — riprendo, dopo una lunga ed imbarazzante pausa. — Molti sarebbero più che felici di vedermi così. — mi atteggio.

— Sei la Principessa, Abigail! — sbotta, quasi dando in escandescenze. — Comportati come tale; e risparmiati queste battute di pessimo gusto — sbuffa, ritrovando la calma, — e copriti, dannazione, che tra non molto tutto il palazzo si sveglierà.

Con uno sbuffo da parte mia, esco dalla camera senza sapere il perché della mia seccatura. M'incammino verso la mia camera e, dopo essermi vestita, ritorno di fronte all'ufficio di mio padre. Dopo averlo atteso per un paio di minuti esco dalla stanza e s'incammina di fronte a me senza proferire parola.

— Padre, ma insomma! — sbotto, ferita di essere ignorata in un modo così evidente. Lo seguo aumentando il passo il più possibile mentre lui inizia a parlare di fronte a me, non voltandosi nemmeno: dà per certo che lo ascolterò con la massima attenzione.

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