Capitolo 6

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Sei anni prima.

Mancano esattamente due settimane al 31 Maggio. Tra poco meno di due settimane Karina e io compiremo diciotto anni e saremo finalmente maggiorenni. Abbiamo vissuto insieme nell'ultimo anno e devo dire che non avevo mai conosciuto una ragazza come lei.

Mi sono sempre tenuta un po' in disparte a scuola, non che i miei coetanei facessero qualcosa per avvicinarmi, ma si sa, se provieni da una casa-famiglia o sei in affidamento vieni additata come una ragazza disagiata e problematica. Ecco, Karina era nelle mie stesse condizioni. Ci siamo conosciute a scuola durante il primo anno di liceo, abbiamo legato subito e forse il fato ha voluto che con il passare degli anni andassimo a vivere insieme.

I Matveev ci presero in affidamento all'età di sedici anni. Dicevano che avevano sempre sognato di avere due gemelle che vagavano per casa, ma Karina e io non eravamo gemelle, semplicemente eravamo solo nate lo stesso giorno nello stesso mese e nello stesso anno, ma comunque non abbiamo nessun legame di parentela e fisicamente siamo totalmente diverse. Con il passare dei giorni, il nostro legame divenne sempre più forte. Frequentavamo la stessa scuola, gli stessi corsi, le stesse persone e gli stessi posti. Abitavamo nella stessa casa, ma sarebbe durata poco perché a breve non saremo più state tutelate da nessuno.

«Kari, cosa faremo quando saremo maggiorenni?» chiedo, mentre sfoglio una rivista di gossip seduta sul letto della mia camera.

«Andremo a lavorare» risponde, come se fosse scontato.

Anche caratterialmente siamo l'opposto. Lei, al contrario, è sempre stata sicura di ciò che vuole e di ciò che vuole fare. Me l'ha sempre detto, vuole lavorare perché non ci sarà nessuno che le pagherà gli studi in futuro. Lo stesso vale per me, anche se mi sarebbe piaciuto frequentare l'università. Ho da sempre adorato la letteratura inglese, ma è un sogno che non posso coltivare. Mi mancano i mezzi, per cui anch'io andrò a lavorare a breve.

«Hai già trovato un lavoro?» chiedo ancora.

«No, ma questo pomeriggio ho un colloquio di lavoro con il proprietario del Red Light Club».

«Red Light Club? K, quello è un locale per soli adulti» affermo, incredula. «Uomini» puntualizzo.

«Lo so, ma tu hai altre alternative? Sono settimane che cerco lavoro e non ho trovato nulla. Non devo per forza spogliarmi, posso fare la barista o la donna delle pulizie. O posso aiutare a tenere la contabilità del locale. Sono disposta a fare qualsiasi cosa! Sono andata ovunque in questi giorni e Igor è l'unico che mi ha concesso un colloquio».

«Chi è Igor?».

«Il proprietario del Club. Comunque, tra pochi giorni saremo anche senza una casa, quindi dobbiamo sbrigarci a trovare una sistemazione. Anche una baracca andrebbe bene» sentenzia.

Già, perché tra un po' dobbiamo andarcene anche da qui.
Non so cosa passò nella mente dei miei genitori quando mi abbandonarono, ma sta di fatto, che l'hanno fatto senza riflettere (credo e spero). Non li ho conosciuti – non so nemmeno chi siano o se sono ancora vivi – ma una cosa è certa, per loro ero solo un peso. Anzi, qualcuno che ha fatto saltare i loro piani. Se mi avessero voluta a quest'ora non sarei in questa situazione. È certo che non mi hanno mai cercata. Nessuno si è fatto vivo in questi anni. E i miei parenti? Puff, scomparsi. Zero traccia di nonni o zii. Sono totalmente sola e Karina è l'unica persona fissa presente nella mia vita e io nella sua. Per questo abbiamo deciso di andare a vivere insieme appena saremo maggiorenni. Divideremo l'affitto e le spese in generale e ci faremo compagnia a vicenda.

Forse più gli anni passano, più mi troverò male, ma quello che so per certo è che adesso mi serve un lavoro per andare avanti per non morire di fame. Quindi, senza pensare chiedo: «Kari, credi che Igor sia disposto a concedere un colloquio anche a me?».

Oggi

Veronica
Questa mattina sono stata svegliata dall'ennesimo incubo. Solo che questa volta sogni e realtà erano separati. Diciamo che ho sognato qualcosa che ho vissuto personalmente sulla mia pelle e non vedevo l'ora di uscire di casa per fuggire da quel silenzio assordante e purificare la mia mente dalla paura.

Sono così andata da Astrid e, come da routine mattutina, ho trascorso un'oretta in compagnia di Elia prima di portarlo al nido, poi ho raggiunto il St. John.

Dopo un'impegnativa giornata passata con i bambini, sono felice di potermi rilassare – anche se solo per pochi minuti – prima di andare a lavoro. Non mi va di tornare a casa perché, stranamente, non mi sono mai sentita realmente al sicuro. Nessuno sa dove vivo, per cui non avrei motivo di preoccuparmi, ma gli episodi passati mi hanno insegnato che è sempre meglio non abbassare la guardia ed essere sempre prudenti. Quindi preferisco stare sotto lo sguardo delle persone dove mi sento un po' più al sicuro.

Sto pranzando tranquillamente da Starbucks quando, al di là della porta, proprio in strada, vedo un volto che mi sembra di conoscere.

Quegli occhi di ghiaccio mi perseguitano da anni. Mi sento come in apnea, senza fiato e con il cuore che batte all'impazzata. Inizio a sudare freddo, con brividi di terrore che corrono lungo la mia schiena. Mi salgono le lacrime agli occhi quando metto a fuoco quella figura e mi accorgo che non è lui.
Come potrebbe esserlo? Lui è morto. Sono al sicuro, continuo a ripetermi. Perché la mia mente non lo accetta? Devo stare tranquilla. Sono al sicuro.

Ma poi il mio sguardo incontra un altro paio di occhi. Occhi verdi, luminosi. Gli occhi più belli che io abbia mai visto. Occhi, che forse, credo di aver sognato.

Matt è seduto dall'altro lato del locale. All'inizio non si accorge di me, ma quando i nostri occhi si incontrano, mi guarda con un'espressione compassionevole. Non oso immaginare il mio volto in questo momento. So come potrebbe apparire, mi succede tutte le volte che vado in crisi ed è per questo che quando gli vedo fare un mezzo movimento nella mia direzione mi alzo e il mio primo istinto è quello di allontanarmi da lui e iniziare a correre. Non posso affrontarlo adesso, devo allontanarmi. Non posso farmi vedere in queste condizioni perché non saprei come giustificare il mio comportamento e il mio stato d'animo attuale. Ho già dato spettacolo sabato alla festa, per di più anche di fronte Lauren. Così mi incammino verso l'uscita sul retro a passo svelto.

«Veronica! Ehi, aspetta» lo sento chiamarmi, ma lo ignoro e continuo per la mia strada.

Imbattendomi nella cameriera di turno, dico: «Domani mattina passo a pagare. Scusa, Marie, ma devo proprio scappare».

Inizioa correre più veloce ed esco in strada. Sento Matt dietro di me, ma svolto adestra nella speranza di seminarlo o almeno riuscire a mettere un po' didistanza tra noi.
Quando giro di nuovo l'angolo tiro un sospiro di sollievo, ma dura poco perché sento una mano che mi copre la bocca e mi trascina con sé in un vicoloisolato.

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𝗧𝘂 𝗻𝗼𝗻 𝗺𝗶 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗲𝗱𝗶Where stories live. Discover now