09 • il cuore del vampiro

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Aima decise di sparire per due giorni: non si fece vedere né ai pasti, né agli allenamenti e perfino nei corridoi non lo si intravedeva più, magari indaffarato in qualche questione di stato.

Iniziammo a dormire in camere separate o, almeno, così credevo, dato che non si era mia presentato nella nostra nuova camera da letto.

Probabilmente, avrei dovuto pensare di averne una qualche colpa, ma, in realtà, mi imposi di non pensarci.

Comunque, la mente di Ivar lavorava abbastanza per tenere occupata anche la mia, soprattutto quando gli chiesi un aiuto per scegliere il regalo di compleanno di Serena.

"Facile," ribatté, con disinvoltura: "dalle una qualsiasi cosa priva del minimo gusto: sono certo che le piacerà."

Comunque, nonostante la sua iniziale repulsione, mi accompagnò di nuovo alla Corte, e passammo tutto il pomeriggio di bancarella in bancarella: Ivar consigliandomi e litigando con il cattivo gusto dei venditori, io a distrarmi in qualsiasi minima cosa.

"Si può sapere cosa ci trovi di tanto interessante negli alberi? Ne hai fissato uno per cinque minuti," esclamò, seccato, posando il piccolo sacchetto che conteneva il regalo di Serena - un vestito nero pieno di borchie - sulla panchina in legno. Per un attimo, mi bloccai ad osservare le venature naturali in questa, ma, notando lo sguardo del vampiro, decisi di evitare.

"Ne ho visto uno per la prima volta solo un mese fa, così come tutto il resto," spiegai, sedendomi al suo fianco e portandomi le gambe al petto. "Non pensavo che il mondo fosse così bello."

"Tutto sembra bello sé visto per la prima volta," replicò lui, lasciandosi andare in una smorfia infelice. "È quando inizi a conoscere la verità che capisci che è solo una questione di apparenza."

Corrugai la fronte, osservando il suo profilo aquilino mentre, sistematicamente, cercava di ignorarmi. Notai alcune demoni lanciare sguardi d'amore a lui e grugniti d'odio a me, ma Ivar finse di non notarlo.

"Scommetto che in molti ti invidiano."

Il vampiro si voltò verso di me, alzando un sopracciglio castano. "Come?"

"Tutti vogliono essere amati e provano odio per chi lo è," spiegai, brevemente. "Tu hai ciò che gli altri sognano, eppure non sei mai felice."

"Questo non puoi saperlo," ribatté lui, con una punta di sdegno. "Lo stare dentro una cella per diciassette anni non ti rende esattamente l'essere più consapevole del mondo, bambina."

"Però, il pensare di poter morire ogni singolo giorno può farlo," ribattei, e, insolitamente, lo notai serrare le labbra, insolitamente senza parole.

Gli dedicai un piccolo sorriso, affatto felice, e iniziai a giocare con l'orlo del mio maglione. "Sono cresciuta con la certezza di essere uno sbaglio: da questo, gli angeli non hanno mai tentato di salvarmi. E, ogni giorno, ogni volta che mi risvegliavo in quella cella bianca, la prima cosa a cui pensavo era se quella fosse stata l'ultima volta in cui avrei riaperto gli occhi. Gli sbagli non sono fatti per durare in un mondo perfetto come quello degli angeli, ed io ero certa che, prima o poi, avrebbero deciso di cancellarmi per sempre, proprio come uno scarabocchio su un foglio bianco. Il pensare che qualcuno potesse incolparmi e punirmi solo per essere nata mi ha fatto capire che le creature non sono fatte per essere felici. Anche quando hanno tutto ciò che vogliono, quando non potrebbero desiderare altro, si sforzano di trovare una singola imperfezione, tanto per occupare il proprio cuore. Eppure, il mondo non ha colpa se chi lo vive non riesce ad accorgersi di quanto sia fortunato."

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