Non ricordo

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Eileen Harrison's POV

Verso la metà di novembre iniziò a nevicare.

Succedeva spesso dalla mie parti, e quella candida cascata di bianco mi ricordò la mia famiglia.

Pochi giorni dopo mi arrivò la notizia della nascita del figlio di Eliza, Henry.

Il tono della lettera che avevo ricevuto da mia madre, mi fece capire che la sua felicità era alle stelle.
E come biasimarla.

"Il piccolo Henry ha occhi blu scuro, e un visino dolce dolce" aveva scritto.

Non sarei tornata a casa per Natale. Le lezioni sarebbero riprese solo due giorni dopo, e non potevo permettermi di saltarle.
Così, con immenso dispiacere, giurai alla mamma di scriverle più spesso.

Sigillai la lettera e la riposi nel cassetto.
L'avrei spedita più tardi.

Guardai fuori, e vidi con piacere che la neve stava attecchendo al prato del giardino.
Un sottile velo bianco ricopriva i rami degli alberi,  ormai spogli di ogni foglia.

Nel cielo bianco gli ultimi uccellini sfortunati tornavano nelle loro case, e quando aprii la finestra un'ondata di gelo mi fece tremare.

Il vento era ghiacciato, e un silenzio tombale regnava nell'aria.
Mi sedetti sul davanzale e infossai il viso nelle ginocchia appoggiate al petto.

Inspirai profondamente mentre un vento freddo mi scorreva tra i capelli.

Era quasi piacevole.

Un rumore tagliò l'aria.
Era regolare e lento, seguito da strani sbuffi scocciati.

Una figura di un uomo entrò nel mio campo visivo.
Camminava con una valigetta in mano, e l'altra teneva stretto il colletto della giacca.
Dietro di lui lasciava impronte scure nella neve.

Era un uomo di mezza età, con capelli neri tagliati ordinariamente e uno sguardo serio.
Aveva i tratti taglienti solcati da rughe lievi, e un portamento elegante che mi ricordò vagamente qualcuno.

Arrivò sotto al portico, e non lo vidi più.
Poco dopo suonò il campanello, e dei passi risuonarono nell'entrata.

Poi sentii solo qualche parola, mentre una porta al piano di sopra sbatteva forte.

Troppo forte



Tristan Brightwood's POV

Avrei dovuto entrare.

Davvero

Forse sarebbe stato meglio se l'avessi fatto.

Invece rimasi davanti alla porta per un tempo infinito, a convincermi di tirare giù la maniglia.

Ogni dannata volta che la abbassavo di poco, la rabbia mi faceva indietreggiare.
E quando mi allontanavo, la razionalità prendeva il sopravvento e cercavo ancora di aprire la porta.

"Siete andati a chiamarlo?"

"Dovrebbe arrivare tra qualche istante, abbi pazienza."

Qualcuno sbuffò.

Riconobbi chiaramente la voce di mio padre, e quella più calma di mia zia.
Mia madre... non era venuta?

Strinsi gli occhi e vidi tutto nero.

Se quando ero bambino non avevo capito che non ero abbastanza, mio padre me lo fece capire da ragazzo.

Pensavo che volesse un figlio capace di fare cose che io non avrei saputo fare.
Ma semplicemente voleva qualcuno che non ero capace di personificare.

Allora ogni traccia di indecisione scomparve dentro di me.

Tolsi la mano dalla maniglia, e feci qualche passo indietro continuando a guardare la porta. Sbattei la schiena contro la parete.

Non volevo vederlo.
Gli avevo parlato alcune settimane prima ed era stato abbastanza.

Uscii di casa e inspirai profondamente.

Nevicava.

Non ricordavo dove fossi o cosa stessi facendo l'ultima volta che aveva nevicato.

Forse ero qui
Forse

Sentii i fiocchi impigliarsi nei capelli.

Il gelo mi investì come solo lui sa fare. Mi entrò nelle ossa e non ne uscì più.

Arrivai al centro del prato.
Mi gettai a terra, bagnadomi la sottile camicia che indossavo.

Guardai su e mi persi nel bianco.
La neve mi ricordò vagamente la polvere che si intravede quando un raggio di sole illumina una stanza buia.

E quella polvere l'avevo vista tante volte quando ero piccolo.
Come se fossero fili dorati, i raggi entravano dalle tende pesati che mi oscuravano la vista.
In realtà non lo volevo vedere, il paesaggio al di là della finestra.

Semplicemente non mi interessava, troppe persone me lo avevano fatto odiare.

Allora chiudevo gli occhi e dimenticavo quel raggio di sole che entrava.

Ecco che mi ritrovavo in un campo pieno di neve.

Forse mi piaceva tanto l'idea che cadessero fiocchi gelidi dal cielo perché in fondo ero freddo come loro.

Molte persone avevano paragonato i miei occhi al ghiaccio.

Non ero d'accordo.

Il ghiaccio era immobile, capace di distruggere i più forti e rinchiudere i più deboli.

Io non ero il ghiaccio. Ero la neve.

Potevo sciogliermi con molta più facilità di quanto volessi dare a vedere.
Potevo sgretolarmi lentamente sotto una giornata di sole, e nessuno se ne sarebbe accorto.
Ogni parte di me avrebbe potuto rompersi.
Alcune erano già rotte.

Non sapevo dove mi trovassi l'ultima volta che nevicò.
Incredibilmente, però, ricordavo perfettamente dov'ero la prima volta che mi accorsi che in effetti nevicava.

Sdraiato su un letto.
Il petto in fasce.

La mente nel vuoto, e il cuore... dilaniato da un bisturi.

Siamo Sotto la Stessa PioggiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora