21. Notti tormentate

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Ero seduta su un pavimento freddo, che mi gelava dappertutto. La luce era bianca, asettica, così come il resto della stanza. Soffitto, pavimento, pareti. Tutto era completamente bianco e freddo.

Era notte, credo. In realtà non c'erano finestre in nessuna delle quattro pareti. La stanza era davvero piccola, quasi soffocante.

Solo quando la maniglia scattò notai che sulla parete a destra vi era una porta. Era grigia e sembrava blindata, considerando dal metallo pesante con cui era stata fabbricata.

La porta si aprì con fatica cigolando.

Era arrivato per torturami. Per strapparmi le unghie, scuoiarmi, staccare uno ad uno i miei denti. Lo sapevo.

Aveva il suo carrellino con sé. Cigolava al ritmo del mio cuore. Poi rientrò nuovamente nel mio campo visivo quando fu ad un passo da me. Sembrava tutto così vivido e ciò non faceva altro che angosciarmi.

- Da dove iniziamo? -.

Lo sforzo di urlare fu immane, ma dalla mia bocca uscì un flebile soffio d'aria accompagnato da un suono strozzato. Tutta l'aria che avevo accumulato per urlare restò bloccata nella schiena, facendomi gemere per il dolore.

Sbarrai gli occhi, rigida come un bastone su quelle lenzuola ormai bagnate. Non avevo ancora il coraggio di muovermi o di prendere una boccata di ossigeno. Restai immobile, ruotando le orbite per raggiungere ogni angolo della stanza, illuminata dalla fredda luce dell'alba.

Non c'è nessuno.

Convinsi i miei polmoni a lavorare normalmente. Avevo la fronte madida di sudore, i capelli attaccati al collo e schiacciati sulla nuca.

Era la seconda notte di incubi. Avevo iniziato a fare sogni vividi e allo stesso tempo terrorizzanti. Quella notte era il turno dello Squartatore.

***

Dopo quell'interminabile ora di francese, sentire il suono della campanella mi portò in paradiso. Non vedevo l'ora di fare una pausa da tutta la giornata. Praticamente avevo passato le ultime due notti a sonnecchiare malamente tra un incubo e l'altro. La mia vita si stava trasformando in un incubo.

Non c'era più nulla che andasse come prima. Il pensiero di Aiden mi torturava giorno e notte. Avevo ipotizzato di aver fatto involontariamente qualcosa di male. Forse mi odiava per quello.

L'unica cosa che procedeva allo stesso modo di prima era il rapporto con i miei amici. Era per quello che non ero ancora crollata.

Quella mattina mia madre mi aveva chiesto cosa avevo: una madre sa sempre se c'è qualcosa che non va. Non le avevo parlato di Aiden e di come mi aveva trattata, ma semplicemente le avevo detto che non dormivo bene. Mi ero guadagnata una torta al cioccolato per quel pomeriggio.

Cercai qualcuno dei miei amici nel corridoio, ma non vidi nessuno. L'insegnante di francese si era trattenuta più del solito in classe, facendomi arrivare con qualche minuto di ritardo in mensa.

Avevo un mal di testa incredibile e un paio di compresse nella tasca dello zaino da prendere dopo pranzo.

Presi un vassoio e, dopo averlo riempito, mi diressi dai miei amici. Nella mia testa erano un'ancora di appoggio. Al tavolo mancavo soltanto io, ma quando vidi le spalle larghe di Aiden rallentai il passo, quasi sul punto di andare a mangiare da qualche altra parte.

- Ehi, bionda - urlò Bryan, alzando un braccio per salutarmi. Si guadagnò tutti gli insulti del mondo mentre raggiungevo il tavolo. Il mio tentativo di fuggire dalla mensa era praticamente fallito.

Come la peceWhere stories live. Discover now