35. Le rose sono rosse, nell'acqua metto il tè... nel dubbio, Timothée Chalamet

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Okay, allora, prendiamoci un attimo per parlare. Solo noi, faccia a faccia. Forse avrete bisogno di riprendere fiato. Tante informazioni in poco tempo, eh?

Ora pensate a questo, al modo in cui vi sentite. Nel giro di pochi capitoli avete visto la mia vita venire completamente ribaltata. Voglio dire, se ora vi dicessi che quel mercoledì mattina mi alzai e andai a lavoro in groppa al mio ippogrifo magico non vi stupireste più di tanto, no?

Ecco. Ora riflettete sul fatto che per voi sono capitoli, per me sono state settimane. E la vita che è stata sconvolta è la mia, non la vostra.

Adesso forse riuscirete a comprendere il perché dell'isterismo che mi portai dietro quel giorno.

«Tesoro, vuoi dei pancake per colazione? Lo zio Albert ci ha portato dello sciroppo d'acero direttamente da Vancouver.» mi sorrise mia madre, nel vedermi scendere le scale.

Io la fulminai con lo sguardo.

«Certo, così ingrasso e mi si cariano i denti. Poi chi mi vorrà, mamma? Eh? Questo stupido mondo fat-fobico mi calpesterà come uno zerbino, te lo dico io!» sbuffai.

Mi sedetti al tavolo della cucina e affondai il volto fra le braccia, con fare distrutto dalla vita.

Potei sentire lo sguardo interdetto di mia madre su di me.

«Tesoro... hai il ciclo, per caso?» chiese, tenendosi a debita distanza.

«Certo, perché in questo mondo misogino l'unica ragione per cui una donna può avere le palle girate è perché ha il ciclo, vero? Non me lo sarei mai aspettata da te, genitore uno.» la rimproverai.

La donna battè le palpebre un paio di volte. Poggiò lentamente il mestolo sul tavolo, evitando i movimenti di bruschi.

«Come dici, Cameron? In cantina? Sì, certo, arrivo subito!» esclamò.

E detto questo, uscì a razzo dalla stanza.

Simultaneamente, mio padre entrò dalla porta che dava sul salotto. Mi sorrise da sopra la sua tazza a forma di alpaca, da cui usciva il fumo del caffè bollente.

«Buongiorno, tesoro.» si sedette davanti a me. Lanciò un'occhiata fuori dalla finestra, dove la pioggia continuava a cadere imperterrita. «Sembra che non smetterà di piovere ancora per un po'. Vuoi che ti accompagni a lavoro in macchina?»

Io sbuffai.

«Credi che non sia in grado di cavarmela da sola solo perché fa due gocce? E' questa la considerazione che hai di me, eh? Ma che vi prende a tutti, oggi!»

Mi alzai di colpo dalla sedia, afferrai una mela dal cestino della frutta e infilai il cappotto impermeabile appeso in ingresso. Presi la mia borsa e l'ombrello e, senza più voltarmi, uscii di casa.

Il pullman era in ritardo. Tipico. Aspettai sotto la pioggia, infreddolita e bagnata. Quando arrivò i posti erano tutti occupati, così dovetti stare in piedi, schiacciata fra due vecchietti umidicci. Afferrai un'aspirina da viaggio dalla borsa e me la lasciai scivolare sotto la lingua poco prima di arrivare alla mia fermata.

Corsi in ufficio, con i tacchi che affondavano nella ghiaia del viale. Nella hall rischiai di scivolare sul pavimento bagnato, così imprecai.

«Dio santo, non possiamo mettere un dannato straccio? No? Dobbiamo per forza aspettare che qualcuno cada e si spacchi la testa?» gridai, frustrata.

Harry, seduto alla sua scrivania, mi guardò con occhi stralunati.

«Cami... tutto bene?» chiese cauto.

Questa non è una storia d'amore Where stories live. Discover now