44. L'ultima corsa

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«Biglietto, prego.»

Sbattei le palpebre, osservando confusa il ragazzo in piedi davanti a me. Aveva il viso ricoperto di acne, l'apparecchio ai denti e indossava uno strano abito da uscere.

«Come?» farfugliai.

«Il biglietto.» ripetè lui, con fare scocciato. «Entro oggi, se può. Si sta formando la coda.»

Io mi guardai dietro. Non c'era nessuno. Solo due file di corde e un cartello con su scritto "ingresso qui". Davanti a me, accanto al banchetto del ragazzo, c'era un tornello. La luce sopra era rossa.

«Non so di cosa sta parlando...» mormorai ancora.

Solo allora mi resi conto che la testa aveva smesso di farmi male. Eppure non riuscivo proprio a ricordarmi come fossi finita in quel posto. L'ultima cosa che ricordavo era il cemento freddo del marciapiede davanti all'ingresso dell'ospedale. E ora ero lì, il ragazzo continuava a guardarmi, e dietro a quel tornello... era una ruota panoramica, quella?

«Lasciala passare, Gabriele. È con me.»

Mi voltai, e per poco non mi venne un colpo. Il signor Murphy mi osservava da poco lontano, sorridendomi in quella maniera dolce e stralunata così tipica di lui. Indossava l'abito che aveva la notte che era morto. I capelli erano spettinati. Aveva una pianta sottobraccio. Una peonia, credo, con i petali azzurri.

«Responsabilità tua, Hugh.» sbuffò il ragazzo, senza variare espressione.

Permette un bottone, e in un secondo la luce sul tornello divenne verde. Lo guardai incerta, ma alla fine lo spinsi appena e attraversai l'ingresso.

Mi avvicinai esitante all'uomo, studiandolo con le sopracciglia aggrottate.

Lui rise.

«Dovresti vedere la tua espressione. Sembra che tu abbia appena visto un fantasma.»

Aggrottai la fronte.

«Non è questo che sei?»

«Oh buon Dio, no. La tua mamma non te l'ha mai detto che i fantasmi non esistono?»

Sbattei di nuovo le palpebre, ma non ribattei. L'uomo mi porse il braccio libero, stringendo la pianta con l'altro.

«Coraggio cara, facciamoci un giro.»

Iniziammo a passeggiare lungo il viale lastrato che si apriva davanti a noi. Sentivo la testa pulsare ancora, ma per la prima volta in mesi non era a causa del dolore.

«Dove siamo?» chiesi, aggrottando la fronte.

«Che domanda sciocca, Cami. Non lo vedi da te?»

Iniziai a guardarmi attorno. Vidi la ruota panoramica che avevo scorto prima, che si ergeva maestosa dietro a un carretto di popcorn e zucchero filato. Intravidi un tunnel dell'amore, con tanto di cupidi appesi alle barchette che galleggiavano sul canale. C'era un tiro al bersaglio, una pesca a premi e poi, sullo sfondo, delle montagne russe alte almeno cinquanta metri.

«E' un... luna park?» chiesi.

L'uomo annuì. Il suo braccio era ancora stretto al mio, ma mi accorsi che non emanava calore. Eppure riuscivo a percepire il suo profumo, che non mi ero mai resa conto di quanto mi fosse familiare. C'era un fiore che spuntava dal suo taschino, e solo allora mi resi conto di quanto tutto il suo look fosse molto più a tiro del solito. La camicia perfettamente stirata, gli orli ricuciti, la barba fatta...

«Stiamo andando ad un evento importante?» domandai.

Lui rise. Per un secondo potrei giurare di aver visto le sue guance assumere un po' di colore.

Questa non è una storia d'amore Where stories live. Discover now