• 41 - Sono innamorato di te.

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"Ahia.", mugola quando premo leggermente la borsa col ghiaccio sulla mascella con più forza del dovuto.

"Te lo meriti. Non avresti dovuto dirgli quelle cose.", lo rimprovero ricordando l'accaduto. Istantaneamente mi sento in colpa e sono costretta a scacciare via l'immagine di Ryan che mi ringhia contro.

"Ah io? Dov'eri tu quand- lascia perdere.", scosta la mia mano dal suo volto e si allontana da me andandosi a sedere dietro la scrivania.

"No, Richard. Ora parli. Io non sto capendo più niente con voi due.", confesso esasperata.
Ed è la verità, mi sento sempre come se fossi in un campo minato quando ci sono entrambi: attenta a dove metti i piedi sennò salti in aria,  ma nel mio caso bisogna dire 'attenta a ciò che dici altrimenti si scazzottano'.

"Gli piaci.", dice lapidario puntando le sue iridi nelle mie, "Ed è per questo che gli sto sulle palle. Motivo identico al mio: sono fottutamente geloso.", continua.

"Non è vero, Richard.",

"Non provare a dirmi cosa è vero e cosa non lo è. Tu non vedi come ti guarda.",

"Ciò non cambia che hai esagerato. Non mi sarei aspettata queste parole da te.", puntualizzo ricordando la frase che aveva sputato velenosamemte qualche minuto fa.

"Questo succede quando io tengo a qualcuno.", risponde puntando i suoi occhi nei  miei.
E mi guarda in una maniera indecifrabile, quasi non riesco a capire cosa celano i suoi occhi.
Sono amareggiata, confusa. Non capisco cosa dovrei fare e cosa non, non riesco a compiere un azione di senso compiuto: mi sento persa.

Sospiro e prendo la mia borsa, per poi aprire la porta dell'ufficio.

"Ciao, Richard.", ed esco chiudendo la porta alle mie spalle.

Ho bisogno di pensare.

***
*mattino seguente*


Inutile dire che sto fissando la porta d'ingresso da più di mezz'ora, preparandomi all'assalto ogni qualvolta che entri qualcuno nella speranza che si tratti di Ryan, ma niente.
Zero.
Di lui neanche l'ombra.

E mi sento in colpa, vorrei parlargli per chiarire le cose, perché sono troppe le domande che mi frullano in testa, e vorrei anche scusarmi per quello che gli ha detto Richard.

Io so come si sentiva quando si parlava di suo padre: ha portato avanti la famiglia crescendo lui e le sue due sorelle, spaccandosi la schiena e mettendo da parte un sacco di risparmi per il negozio.
Richard ha toccato il tasto più debole e non avrebbe dovuto farlo.

Resto così, con le mani in mano e lo sguardo fisso sull'ingresso per circa venti minuti, fin quando Richard non si avvicina.

"Chi aspetti?", chiede, ma nei suoi occhi vedo una scintilla di consapevolezza.
"Lo sai bene.", ribatto, "Mi sento in colpa dopo ieri.", confesso passando una mano tra i miei capelli.

"Sono io che gli ho dato un cazzotto in faccia, non tu.", puntualizza spostando il suo peso da una gamba all'altra.

"Sì ma...io...", inizio, ma non trovo le parole per continuare.
Perché non riesco neanch'io a spiegare questa morsa che attanaglia il mio stomaco.
Richard mi fissa interrogativo, poi schiude le labbra, "Comunque si è licenziato da solo. Ieri sera, quando non ero io di turno ma mio padre, si è presentato agli uffici, ha ritirato tutte le sue cose e si è licenziato."

Per un Manhattan di troppoWhere stories live. Discover now