Prologo

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— Entra, Megan.

Il fuoco scoppiettava possente nel camino. I tizzoni ardenti pungevano lo sguardo, arrivando ad arroventare le pupille tanto che, chiunque si fosse trovato nelle vicinanze, avrebbe dovuto schermarsi gli occhi con le mani. 
La diciannovenne Megan, senza un cognome, chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Poi li riaprì, fissò la porta e percorse con lo sguardo le venature marcate del legno di cedro che, ormai, dopo tre lunghi anni, aveva imparato a conoscere perfettamente. Aveva sempre pensato che ci fosse qualcosa di assurdamente surreale nel modo in cui quel legno era stato scalfito, tanto quanto era inverosimile e assolutamente inconcepibile il fatto che lui, il padrone, la reclamasse a sé tutte le notti per soddisfare i propri piaceri carnali. Del resto, però, Megan non avrebbe potuto aspettarsi altro da un uomo di mezza età che tornava a casa, tutte le sere, perennemente ubriaco. Perché avesse scelto proprio lei era il vero mistero, il dubbio che per tre anni aveva assillato la mente della giovane donna, e a cui non aveva ancora trovato una risposta.

La routine era sempre la stessa: Megan terminava di svolgere le mansioni che di consueto la occupavano tutta la giornata, si ripuliva il viso e poi, ancor prima che avesse il tempo di mettere qualcosa nello stomaco, il padrone la mandava a chiamare. Lei doveva correre, tutte le volte; lui non accettava il minimo ritardo.
Di solito il padrone faceva portare il vassoio della cena nelle sue stanze per permetterle di mangiare qualche boccone ma, quella sera, Megan non si aspettava che le offrisse altro che una ciotola d'acqua. Le altre serve le avevano riferito che era tornato a casa più ubriaco e arrabbiato del solito.

— Megan — la chiamò ancora, la voce alterata dal vino. — Ti ho detto di venire qui.

Megan non aveva paura. Non ne aveva mai avuta. Nemmeno quando, appena sedicenne, il padrone le aveva sottratto la sua purezza, con una sola, violenta e fatale spinta che l'aveva catapultata in una dimensione di panico e angoscia. L'amplesso durava poco, mezz'ora al massimo, poi lui si stancava e la cacciava, senza degnarla del minimo sguardo.
Ora, però, cominciava a provare il brivido del timore, perché la sua voce sembrava tanto, troppo diversa dalle altre sere. Era più intensa, più rauca, più intimidatoria.

— Milord... — balbettò, inchiodata al pavimento. La sua mano era ancora stretta attorno alla maniglia della porta e non sembrava intenzionata a lasciarla andare.
— Vieni qui e spogliati, dannazione! — ululò Victor Fisher, battendo il pugno sul tavolino rettangolare davanti alle sue ginocchia. La brocca d'acqua tremò, facendo colare alcuni fiotti lungo le pareti e Megan sussultò. Le sue dita affusolate scivolarono via dalla maniglia. Lentamente, a passi incerti, raggiunse il padrone e si sedette sul tavolo come lui le ordinò  di fare. Il ginocchio di Victor si insinuò all'interno delle sue gambe, allargandole con un solo strattone.
Megan cominciò ad avvertire il solito brivido di disgusto, inalando il suo fiato impregnato d'alcol quando lui si chinò avido verso di lei e le catturò le labbra in un bacio famelico.

— Ferma con quelle mani! — ringhiò a un centimetro dalla sua bocca, bloccando i suoi movimenti quando fece per slacciare i nodi del corsetto.
— Lascia a me il divertimento. —
Strappò via i lacci con violenza, lacerando il tessuto sottostante, poi le aprì il corsetto sul davanti, esponendo i seni piccoli e tondi. Chiunque, guardandoli, li avrebbe associati ad una ragazzina pura e ingenua, ma Megan non si sentiva così già da molto tempo. Lui le aveva portato via ogni cosa: la dignità, la purezza, l'ingenuità.
L'aveva resa una donna molto prima di quanto lei avrebbe mai immaginato e, per questo, lo detestava.

Victor affondò il viso nell'incavo tra i seni; Megan percepì la ruvidezza della barba scura, lo sentì inspirare avidamente, come se nella sua pelle lattea trovasse il nutrimento sufficiente a tenerlo in vita. Le dita di lui si immersero nei suoi capelli corvini, scuri quanto i suoi e, dopo aver sciolto con impeto la treccia che li teneva uniti, si intrecciarono fameliche dietro il suo collo. Poi si staccò, il giusto necessario per guardarla negli occhi e notare che lei, come ogni volta, non ricambiò il suo sguardo. Con una mossa repentina, animato dal vino e dalla rabbia, Victor afferrò le sue gonne e le sollevò sopra le cosce. Velocemente, si slacciò la cintura che gli cingeva la vita e si abbassò i calzoni. Poi, senza più guardarla, si spinse in lei con violenza.

Una, due, tre, quattro spinte. Dopo la quinta si fermò, ritirandosi appena prima che il seme attecchisse, poi la afferrò per le spalle e la strattonò per farla alzare. Il viso di Megan era, come sempre, inespressivo. Il pallore e l'abitudine avevano indurito i lineamenti della bocca, degli occhi, del suo intero profilo.
Non provava più niente da molto tempo, né dolore, né umiliazione. Niente di niente. Ormai non aveva più importanza come si sentisse o che cosa provasse. Non aveva importanza se fosse sempre sul punto di scoppiare in lacrime.
Probabilmente, non era mai stato importante.
Era diventata un giocattolo, mero strumento di piacere per un uomo potente e spregevole, che l'aveva usata per così tanto tempo e avrebbe continuato a farlo ancora, forse per sempre.

La prospettiva di restare nelle sue mani per tutta la vita la gettava nella disperazione più totale ma, in fondo, cosa mai avrebbe potuto fare per liberarsene?

- IN REVISIONE - Il tuo respiro sulla pelle Where stories live. Discover now