XXIV

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Gli occhi dei corvi scolpiti sul trono di Svafrlami erano diventati occhi veri, con le vene sporgenti come quelle dei suoi occhi che fissavano meravigliati la lama della sua spada, che li rifletteva. Jarl Stenkil lo aveva avvertito che l'esercito di Kolr era vicino a Holmgard e quindi lo aveva spedito con l'avanguardia, assicurandogli che lo avrebbe raggiunto al più presto.

Dimenò la spada senza muoversi da dov'era assiso. Tagliò l'aria in una mossa ad arco, perché una voce interna gli aveva detto di farlo. Gli apparve dinanzi una porta nera.

«Che si apra!» ordinò.

Non si aspettava la luce terrificante che gli offuscò la vista.

Riaprì gli occhi e capì che colui che appariva nella visione di fronte a lui, biondo e col torso nudo, ma con le gambe rivestite di bianco, era Freyr, che un giorno, mentre camminava per le foreste luminose di Ljosalfheim, aveva allungato il braccio destro verso il sole perenne di quel mondo. Con le dita aveva catturato i raggi solari, i quali, manipolati da entrambe le sue mani, erano stati trasformati in sfere dorate dalle dimensioni di un pollice.

Le aveva fatte cadere sul suolo della foresta e si erano disciolte in esso. Col passare delle ore, Freyr senza mai mostrare impazienza, migliaia di esseri simili al suo creatore erano emersi dalla terra. Avevano la pelle e i capelli chiari come il sole ed erano sia femmine che maschi. Erano costoro i primi elfi della luce, gli ljosalfar, che presto avevano riconosciuto il loro padre, davanti al quale si erano inginocchiati. Sin da allora, il dio vani dell'estate era diventato il re di Ljosalfheim.

Svafrlami invidiò le splendide sembianze di quelle creature. Avrebbe voluto essere come loro e invece si stava di nuovo imbruttendo. Riassumeva a poco a poco l'aspetto che aveva dopo ottantuno giorni appeso all'albero, nonostante mangiasse come uno Jotun. Il suo corpo non assorbiva il vitto.

Perché qualcuno gli stava facendo vedere quelle scene? Si trattava forse di un nuovo scherzo di cattivo gusto escogitato da Loki, con l'intento di turbarlo?

Lesse nelle rune iscritte in oro dentro i figli di Freyr che essi erano immuni alle malattie, alla vecchiaia e alla morte naturale. Eppure, se assassinati, non potevano evitare di essere risucchiati nel baratro di Hel; e l'immunità dai mali dipendeva dalla vita del loro creatore. Nel caso in cui il dio avesse trovato la morte, avrebbero sofferto di vecchiaia, si sarebbero ammalati e i loro giorni sotto il sole sarebbero finiti. Ma nemmeno gli elfi più saggi avevano alcuna conoscenza di questo dettaglio. Dopotutto, Freyr non considerava la possibilità della propria morte e non li avrebbe mai informati a riguardo, anche se l'ora dell'addio sarebbe arrivata pure per lui, nel Ragnarok.

Gli dei erano degli ingannatori dai quali era possibile farsi rispettare soltanto mantenendo in pugno la spada. Perfino a Odino bisognava stare attenti, sebbene non tanto quanto con Loki, che non era stato notato da Freyr mentre costui creava gli ljosalfar. Ma Svafrlami lo scorse. Il figlio di Njord e Skadi era stato seguito, Loki sopraffatto da una profonda invidia mentre assisteva alla nascita degli elfi. Aveva concluso che se Freyr era riuscito a dar vita a creature così straordinarie, perché lui non avrebbe potuto fare lo stesso?

Si era allontanato dal vani e si era diretto verso Svartalfheim, laddove non arrivava la luce di nessun sole, un mondo disprezzato financo dai nani, perché paludoso e infestato da creature ostili.

Si era fermato in una foresta di alberi neri, dove sia le foglie che i tronchi si fondevano alla notte. Una bruma ottusa e fredda sovrastava il luogo, per il quale vagavano ragni, ratti e rettili striscianti, che si avvicinavano al dio. Loki aveva alzato gli occhi verso la luna di Svartalfheim, avvolta dalla foschia, ma invece di allungare le mani verso di essa le aveva affondate nel terreno. Aveva tirato fuori una buona quantità di terra. Indi aveva gettato la materia di quel suolo negletto sulle lucertole, sui ratti e i serpenti, che erano rimasti paralizzati. Aveva sputato su quelle creature. La sua saliva rossa si era espansa e aveva cominciato a gorgogliare.

Un fruscio e uno squittio nei pressi del trono scossero il re di Gardariki. Con un occhio continuò ad assistere a quello che appariva oltre la porta, ma con l'altro poteva scrutare ciò che usciva da essa: quei topi, con addosso lo sputo del dio, invadevano la sala magna.

Strisciarono dentro anche le lucertole e sibilavano i serpenti, ma non ebbe paura. Lo stesso ch'era avvenuto a Svartalfheim in passato si sarebbe verificato nella sua dimora.

Si sarebbe potuto pensare che gli animali colpiti dalla saliva si sarebbero dissolti, ma accadde una cosa del tutto diversa. Crebbero fino all'altezza di uomini e si issarono in piedi. I serpenti acquisivano braccia e gambe e perdevano in parte i loro tratti rettiliani per diventare più simili a Loki. Tuttavia avevano i capelli e le pelli scure: erano gli elfi neri, gli svartálfar. Quelli con la pelle squamosa discendevano dai rettili; quelli con la pelle liscia e quelli pelosi erano discendenti dei roditori. La porta nera si chiuse e sparì. Erano all'incirca una trentina.

«Siamo venuti, invitati da nostro padre Loki, per ricevere la luce che ci meritiamo» parlò colui che probabilmente era il loro capo, con voce greve e roca. «Egli ci ha riferito che tu ce l'avresti concessa.»

«Loki ora fa promesse in mio nome?» Svafrlami soffocò un brivido lungo la schiena e si alzò dal trono. «Non importa. Vi farò vedere la luminosa dea.»

Il Verme del SangueWhere stories live. Discover now