XLVI

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Le mura di Holmgard erano scosse da un tremore continuo generato da urla, ruggiti e ululi. Suonavano i corni che convocavano i soldati nelle caserme, che correvano terrorizzati da una parte all'altra. Sebbene gli assedianti non avessero macchine d'assedio, sradicavano alberi a mani nude, sollevavano massi e li scagliavano dentro la città.

«Mai vista una cosa simile!» Jarl Gorm si passò la mano sulla fronte imperlata di stille di sudore. Aveva gli occhi strabuzzati, gelido il sudore di jarl Guttorm, che, con le mani ancora più fredde della pietra dei merli delle mura, si domandava perché gli dei non gli avevano permesso di ascendere al Valhala insieme a jarl Kolr.

Quella era una folla di lupi, le cui zampe si trasformavano in mani artigliate, con le quali riuscivano a scalare la muraglia senza bisogno di scale. L'acqua bollente, le lance, le accette, i sassi e le frecce non bastavano a fermarli; coloro che cadevano si rialzavano in un attimo, come se nulla fosse successo, nonostante i visi ustionati o sfondati e i dardi conficcati nella carne, e riprendevano la scalata.

«Il re! Dov'è il re?» Jarl Gorm aveva perso la ragione. La mano e il mento gli tremavano e lasciò cadere la spada. Il metallo tintinnò sul pavimento. Crollò in ginocchio, ma non raccolse l'arma. Restò immoto.

«Cosa fai, imbecille?» Si chinò e lo scosse con la mano libera. L'altra impugnava l'ascia.

Jarl Gorm era finito, ma giammai sarebbe stato ammesso al Valhala, poiché era diventato in vita un'ombra di Hel. La bava gli colava da un lato della bocca e non batteva più le palpebre.

Uno strido fece sì che jarl Guttorm voltasse lo sguardo nella direzione opposta. Nel frattempo che i suoi uomini cercavano di arginare l'inondazione di lupi, una mano scheletrica toccò il parapetto del cammino di ronda in un settore sguarnito. La creatura si tirò su. Ne seguirono decine di altre, che erano pelle e ossa. Non erano lupi. A dire il vero, non erano nemmeno uomini o donne. Erano mostriciattoli scarniti che balzarono sui soldati e conficcarono i denti e le unghie sui loro volti. Perforavano narici, strappavano occhi, dilaniavano labbra.

Jarl Guttorm non riusciva più a muoversi. Temette che lo spirito della follia avrebbe stritolato e divorato pure il suo cuore e i suoi visceri.


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I berserker e la folle gente che li seguiva e li imitava balzavano sui cavalieri di Holmgard e li disarcionavano; stramazzavano a terra insieme a loro, oppure li trascinavano verso il suolo, graffiando e aprendo solchi di sangue nella carne dei cavalli atterriti.

Arngrim non prendeva parte all'assalto. L'uomo-orso si era incatenato al tronco di una grossa quercia.

Devo resistere... non voglio soccombere un'altra volta! Voglio mantenere la mia coscienza. Voglio rimanere Arngrim, non diventare un orso selvatico che ambisce soltanto alle prede spaventate. Spero che queste catene non si spacchino. I suoi muscoli si contrassero, lucidi di sudore. Ma come farò a resistere al sentore della paura che aleggia intorno a me? Sta diventando sempre più forte, permeando tutta questa città ... che è governata da un uomo che non teme nulla! Svafrlami, il re senza paura, il fratello che la mia adorata consorte odia tantissimo! Eyfura, con dietro le sue scudiere, era alla testa di un branco di lupe inferocite, le sue labbra rosse di sangue. La moglie gli aveva detto che, fintantoché Svafrlami fosse stato in vita, non si sarebbe mai incatenata.

Arngrim provò un'eccitazione senza pari, simultanea a una tristezza disarmante che gli ghermiva il petto, e si mise a piangere e sbavare.

«Sono Arngrim... Arngrim!» La sua voce, da gemito, passò a un ringhio, che divenne un ruggito; spezzò le catene con la forza delle sole braccia e scattò verso la città assalita dal suo popolo.

Il Verme del SangueHikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin