53. Facing tempests of dust, I'll fight until the end

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Scott

Amanda si toglie gli orecchini con impazienza, buttandoli sopra al tavolino da notte vicino al letto. Fa spostare di un pelo il telecomando, avvicinandolo al bordo, mettendolo in bilico.

Non dico niente.
Le lascio i suoi spazi.
La lascio fare. Tutto quello che vuole.

Cammina a passi pesanti, vuole farmeli sentire per bene. Li marca copiosamente sul pavimento freddo, lasciando una scia di orme scure talmente invisibili da sembrare reali.
Si disperdono lungo la mia camera, senza lasciarmi che la mera impressione di poterle seguire.
Ed ho solo questa scelta, una sola, perché di farmi vedere il suo viso non ci pensa proprio.
Lo nasconde con cura sotto i capelli lunghi e quando non ci riesce, mi volta le spalle, congelando ogni speranza di poterle parlare.

Mi preme addosso come un respiro troppo lungo la sua presenza scalfente. Incrina il mio petto, provvede a frammentarlo in punti in cui era già scheggiato, crea nuovi spazi bianchi.

Sono fermo sullo stipite della porta, come se non avessi ancora il coraggio di oltrepassarlo e avvicinarmi. In effetti è esattamente così.

Casa mia non l'ho mai sentita così stretta come ora. Mi sembra di vedere le pareti stringersi attorno al mio cervello.
Osservo la mia stanza, è un po' in disordine, cosparsa di vestiti per cui Amanda ha dovuto fare mille prove prima di decidersi ad uscire.
Ci sono cose sue sparse ovunque: trucchi, elastici dimenticati, profumi, braccialetti e persino uno strano aggeggio che usa la sera sul viso prima di andare a dormire.

Più ci rimugino e più me ne rendo conto: questa è diventata la nostra stanza.

Non c'è nulla che faccia pensare che qui non viva una donna, ed è bello proprio perché è così. Casa mia è sempre stata troppo vuota e troppo precisa per essere definita veramente casa. Lasciare i miei genitori e mia sorella non è stato facile, ma certe scelte, nella vita, bisogna farle anche quando non si vuole, per il bene degli altri.
Non ci ho mai messo particolare amore, cura o attenzione in queste quattro mura. Tornare da lavoro la sera tardi o il mattino all'alba e trovare un letto ordinato e del cibo già pronto in frigorifero è sempre stato il mio contento.
Quella era la mia normalità.

Prima di Amanda. Prima di noi, di tutto quello che c'è stato e c'è.
Tutto questo disordine, il frigorifero colmo, il bagno intriso dei suoi prodotti per capelli e parte del mio armadio occupato dai suoi vestiti, mi ricorda ogni giorno che lei c'è.
Che è qui. E che, forse, non se ne andrà tanto presto. Non prima di essersi portata via tutto quanto.

Eppure, a guardare adesso questo posto, c'è qualcosa che stona. Sembra essere tutto ammassato soltanto per il gusto di esserci, di essere visibile ai nostri occhi.
Qualcosa manca all'appello, qualcosa è stato sostituito. Me ne sono accorto subito dello spazio vuoto del comodino in basso a sinistra nel bagno. Si è riportata a casa le sue cose poco alla volta, per non darmelo a vedere, ma quando si è abituati a vivere soli, anche i minimi dettagli dell'altra persona sembrano importanti.

Di lei non mi sfugge nulla, nemmeno quando pensa che non me ne accorga.
Lo so quello che sta cercando di fare. Lo sa anche lei. Però taciamo. Nessuno dei due ha osato dire nulla in queste settimane. L'ho guardata di soppiatto mentre preparava le valigie per New York mettendoci dentro parte di quello che prima era suo, ma mio.

Ha rubato perfino un paio delle mie magliette, grigie perché sa che non le metto spesso. Ho finto di non accorgermene, anche quando ha preso inconsciamente una delle mie preferite, che conservavo da quando mi sono diplomato.
Non gliel'ho detto, non l'ho fermata. Come avrei potuto farlo?
Le darei tutto pur di vederla felice e non deluderla.

PATENTE E LIBRETTO, SIGNORINA.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora