49. Answer the phone. Scott, you're no good alone

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🔂 Another Love – Tom Odell

Sono la prima ad entrare in casa. È buio, una persiana chiusa male sbatte contro il muro, le chiavi nelle mie mani sembrano tremare.
È l'unico rumore in tutto il vicinato.

Ho il respiro pesante e la schiena ricurva mentre tolgo i tacchi, lasciandoli all'entrata, sulla destra.
Studio il salotto vuoto, devo ricordare dove sia la camera da letto. Mi ci avvio, camminando quasi sulle punte.
Il parquet è gelido, scricchiola ad ogni passo, mi segue come un'ombra.

Non è il solo.
Un'altra finzione di luce si strattona nello spazio vuoto tra i nostri corpi, cerca di fare silenzio, di non farsi scoprire.
Galleggia nell'aria come una nuvola di pioggia scura, sbatte contro le pareti e lima le unghie sui vetri umidi.

La sento come un ferro rovente su pelle nuda. Preme al centro della mia schiena, similmente alla punta di un pugnale. Mi spinge ad aprire le spalle, ad indossare il mento alto come fosse un'armatura.

Chiude la porta anche se non ce n'è bisogno. Intrappola entrambi in questa stanza, tra queste quattro mura troppo sottili per contenere i nostri silenzi incatenati a cuori alterni.

Cerco uno spazio libero, che sia distante e sicuro. Mi ritrovo in un angolo della stanza, dove la luce della luna non riesce ad arrivare, nonostante prolunghi le braccia verso di me.
Mi nascondo, mi richiudo su me stessa e spero che la mia carne possa diventare così trasparente da rendermi invisibile.

Inizio a spogliarmi, fa freddo.
Il tessuto del vestito si impiglia ad ogni spigolo del mio corpo fragile.
Mi sento un rovo di spine.

Quando abbasso lo sguardo, vedo la pelle della pancia ricoperta da brividi profondi quanto tunnel. Li sfioro con l'indice, supplicandoli di andarsene via.

Voglio soltanto che questa sensazione scompaia.

Infilo il pigiama anche se le mani faticano a tenere la presa e la gola è chiusa in un pugno di sabbia.
Non mi volto subito.
Prendo ancora del tempo, fingo di non riuscire a raccogliere i capelli in una coda. La disfo di proposito almeno dieci volte, fino a farmi male ai polso e sentire le dita rigide.

Mi sta guardando.
Lo sento addosso. Spinge la lama in profondità, scavandomi il centro del petto senza pietà.
Resto senza fiato.

Non si ferma affatto. Lui continua a guardarmi.

Forse vorrebbe dire qualcosa, ma non deve farlo. Non c'è nulla da aggiungere.
Eppure fa male, perché non siamo mai stati così silenziosi tra di noi.
Io, non ho mai percepito il bisogno di stargli lontana, di metterlo da parte per non fargli capire come mi sento veramente.

Non capirebbe comunque.

Giro di un mezzo sole, fronteggiando nuovamente il suo corpo imponente.
Lo trovo in piedi vicino al letto, in una posizione che non è mai stata più incerta.
Sembra a disagio, fuori luogo. Distante.
Pare il personaggio di un quadro che nessuno comprerebbe, perché non ci troverebbe nulla di bello, solo tanta estraneità.

Invece, io lo guardo in tutta la sua fragile diversità. Non provo paura, non provo candore, non provo pietà, non provo affetto.
Non provo nulla.

Fermo lo sguardo sul petto nudo, che si muove in un cerchio simile al borbottare del mare.
Il respiro sembra più lento e controllato, come se lo stesse sforzando.

Distolgo lo sguardo, pronta ad infilarmi sotto le lenzuola e chiudere gli occhi per una notte intera. Non voglio restarlo a guardare.
Se mi addormento, non accadrà nulla.

Non m'importa dove lui voglia dormire.
Questo freddo resterà anche se sarà al mio fianco, a pochi centimetri.

Ho addosso la stessa sensazione di chi ha bisogno di piangere ma è circondato da persone e allora rimane con un magone in gola che fa così male da voler far piangere ancora di più.
E gli occhi sono tristi, tristi come rose appassite mentre le labbra sono tese e l'interno della guancia sanguina.

PATENTE E LIBRETTO, SIGNORINA.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora