60. Ti volterai senza vedermi, ma io sarò lì

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Ho freddo.
Le forchette tintinnano, i coltelli graffiano i piatti e i bicchieri si scontrano. Il suono è ovattato, distante, opaco come avessi un cappello di lana sulla testa, stretto attorno alle orecchie.

Parlano. Parlano. Parlano.
Poi ridono, scherzano e ridono di nuovo.

Mi sento distante. L'unica sensazione che riesco a percepire è il legno del tavolo contro l'interno del mio polso. Il confine sottile e puntiglioso sfrega contro la mia pelle scoperta, proprio contro le venature spesse ma delicate, coperte soltanto dalla mia pelle sottile come un foglio di carta. Cerco di muover la spalla, eppure resto immobile, troppo impegnata ad osservare le polpette che ho nel piatto, ancora totalmente intatte.

Il sugo è diventato acquoso, si è sparso su tutto il piatto azzurro, strisciando sotto alle verdure e alle patate al forno.
Sono esattamente dieci. Dieci le volte che ho provato ad assaggiarne un pezzo, ma il mio stomaco proprio non ha voluto saperne di darne un morso. Dieci le forchettate che ho inflitto negli stessi identici punti, così precise che oramai ne manca solo una a farla spezzare.

Non ci riesco. Ho lo stomaco chiuso. Anzi, in verità ho la nausea. Mi viene da vomitare.
Mi gira la testa e il nodo alla gola è così stretto da farmi mancare il respiro. Abbasso lo sguardo, ho gli occhi che mi esplodono, le vene sul collo pulsano come acqua che bolle in una pentola chiusa, le mani mi sudano.

Questa strana sensazione si diffonde con rapidità in tutto il corpo, diramandosi come radici rinsecchite di un albero che non è stato amato abbastanza, di cui nessuno si è preso cura e che sta seccando lentamente lontano dagli occhi di tutti, quasi si vergognasse del mondo intero. Per colpe non sue. Per colpe altrui. O forse per colpa di nessuno.

Mi ritrovo qui, in un giardino, sola proprio come lui, con le foglie secche e bucherellate, il vento leggero che mi travolge come un uragano, le persone che mi passano accanto senza accorgersi della mia presenza e il sole che da tempo non splende più sul mio pezzo di cielo.

Sono triste.
Voglio andarmene.
Voglio stare sola.
Non voglio nessun sole e nessun pezzo di cielo.
Non voglio nessuno.

Un respiro profondo e finalmente riesco a muovere le ginocchia. Trascino la sedia indietro, facendole fare un suono fastidioso alle orecchie di tutti quanti. Piomba il silenzio e le posate così impegnate a cantare tra di loro, si fermano.
Non guardo nessuno, tengo la testa bassa, mi nascondo dietro ad una cascata di capelli.
Nessuno si accorgerà di me, il piccolo pancino di Maia porta così tanta gioia a questo tavolo.
È lei la luce in questo buio freddo. Sono così contenta di averla vicino, di poter sorridere con sincerità nel vederla. Siamo fortunati ad avere lei, ad avere la possibilità di sentirci tutti felici. Maia e il suo bambino sono il mio motivo per sentirmi felice, per provare qualcosa.

Io non dovrei essere qui. Sono una nuvola grigia nel mezzo di un cielo limpido d'estate. Porto solo preoccupazioni e tristezza. Non voglio attirare l'attenzione di nessuno, voglio essere lasciata da parte, come se non esistessi e fossi già partita. Sarebbe tutto più semplice, per me e per loro.

Sentirmi un peso per me stessa è orribile, ma lo è ancora di più sapere di esserlo per gli altri.
Mi sento così in colpa per quello che sto facendo, per come mi sto sentendo e l'effetto che il mio essere ha sulle persone che mi circondano. Vorrei semplicemente pretendessero che io non esista.

Mi alzo dalla sedia, «Vado in bagno» mi dileguo alla velocità del suono, tanto che penso nessuno mi abbia sentita o vista. Probabilmente non si sono nemmeno accorti della mia presenza, non lo faranno nemmeno della mia assenza.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Feb 15 ⏰

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