28. La prima volta di ogni cosa

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La luce della luna è l'unica ad accompagnarmi a casa, insieme alle voci nella mia testa che non fanno altro che bisbigliare, mentre io cerco disperatamente il pulsante di stop.

Basta.

«Dovevi dirglielo prima» la mia voce scava un tunnel sottile fra le labbra stanche, insinuandosi nelle viscere della mia mente, già colma di veleno acido e doloroso.

«Perché t'importa così tanto di lui?» una domanda che mi corrode lo stomaco, graffiandomi le corde vocali che vorrebbero dire qualcosa, ma hanno paura di farlo.

Non ancora.

Se lo facessi non potrei più tornare indietro, non riuscirei più a fingere di non provare nulla, di star vivendo una situazione che può essere vissuta solo sul momento, cogliendo l'attimo.

Lo sto negando a me stessa.

Appoggio la suola del tacco sull'asfalto afoso, sentendolo stridere come unghie affilate contro uno specchio liscio.

La colonna sonora di un film dell'orrore mi conduce al cancello di casa, per poi essere sostituita dai sospiri dell'erba gracile che soffoco ad ogni passo.

L'aroma pungente del vino rosso invade ancora le mie papille gustative, arrivando con una velocità disarmante al cervello, ricolmo di nebbia fitta e rovente.

Mi sento così stupida.

Chiudo la porta alle mie spalle, sentendo sbattere le ossa spigolose delle scapole contro il legno duro.

Mi prendo qualche istante per riflettere, anche se sembra impossibile data l'ingente quantità di materia grigia presente nei miei pensieri.

Non ho il tempo di riprendere fiato, che lo vedo, appoggiato alla parete del corridoio proprio di fronte a me, nella mia stessa posizione.

Uno specchio ci divide.
Mostra due riflessi uguali, ma completamente diversi.
Simmetrici e asimmetrici.
In bianco e in nero.

Le braccia sono strette al petto, flesse con forza come fossero uno scudo, come se volesse proteggersi da... me.

Mi guarda con occhi torbidi e confusi, dalle pupille dilatate e sfumate di un leggero rosso chiaro.
I capelli sono scompigliati, alcune ciocche di ricci sfatti ricadono sulla fronte, rimbalzando sulle ciglia folte e fitte.
Le labbra carnose e rossastre vengono trattenute da una scia di denti cristallini, che rischiano di lacerarne i lembi delicati come zucchero filato.

Davanti a me, ora, vedo un angelo caduto... dalle ali ricoperte d'inchiostro nero, che sotto alla luce della sera risplendono come lacrime al sole.

È perfetto nelle sue imperfezioni.

«Quattro semafori rossi e probabilmente tutti i punti sulla patente, per essere qui prima di te» dichiara con voce roca, muovendo con fatica il pomo d'Adamo spigoloso come rocce di montagna scheggiate.

«Perché lo so che non mi avresti fatto entrare di tua spontanea volontà» aggiunge, trovandomi completamente d'accordo.

Averlo qui davanti ai miei occhi era l'ultima cosa che avrei voluto, stasera.
Non dopo tutto quello che ci siamo detti, ma anche trattenuto per paura di ferirci.

PATENTE E LIBRETTO, SIGNORINA.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora