Capitolo 33 (Prima parte)

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L'odore di disinfettante nelle narici, era ormai divenuto familiare. Le pareti del corridoio, tinte di un colore neutro, erano quasi ipnotizzanti. C'era un silenzio quasi surreale quella mattina in ospedale. Solitamente avrebbe dovuto fare la Chemioterapia nel pomeriggio, in modo che né lui, né il suo Stalker Bodyguard saltassero le lezioni scolastiche. Ma c'era stato un disguido e si era trovato lì, seduto su una di quelle scomodissime sedie in plastica, a far finta di provare estremo interesse verso la porta della stanza dove gli avrebbero iniettato lava ustionante nelle vene, accanto al suo ragazzo autoinvitato e stranamente taciturno. Quando aveva saputo che avrebbe dovuto recarsi lì di primo mattino lo aveva riferito a Chris, minacciandolo di disegnargli geroglifici espliciti sul viso con l'indelebile nero mentre dormiva nel suo letto, in uno di quei pomeriggi passati insieme, se avesse solo pensato di saltare le lezioni a causa sua. Victor lo addocchiò distrattamente, senza farsi notare. Perché, quando lo aveva visto quella stessa mattina, davanti all'ingresso dell'ospedale, avevano iniziato a litigare.

«Ti avevo detto che non c'era bisogno che mi accompagnassi!» ribadì Price allargando le braccia.

«Si che ce n'è bisogno! Tuo zio è dovuto scappare con urgenza a lavoro. Come pensi di tornare a casa dopo la Chemio?» Da un po' di tempo, White abbreviava il nome completo della terapia, come se non riuscisse più a pronunciarlo. Come se, dopo aver vissuto quasi sulla sua pelle gli effetti del farmaco, lo avesse reso fin troppo coscienzioso della aofferenza, anche se Vick cercava di mascherarlo.

Il teppista si ritrovò a boccheggiare come un pesce, dinanzi all'evidenza. «Ti disegnerò un cazzo di pene in fronte con il pennarello indelebile», borbottò entrando in ospedale. E da quel momento non si erano scambiati nemmeno una parola.

Il biondo si era limitato a sedersi al suo fianco, in un silenzio che non gli apparteneva, molleggiando nervosamente la gamba. Price non avrebbe mai ammesso di avere torto. No, non era quello il motivo per il quale si era arrabbiato, non era per la ragione o il torto. Era perché non voleva che Christopher sacrificasse il suo tempo, le lezioni scolastiche, un pezzo di adolescenza che non sarebbe più tornato, che non avrebbe più potuto restituirgli. Quel pezzo di adolescenza che lui non avrebbe mai vissuto serenamente. Sospirò, poggiando la testa sulla spalla di White. Si sentiva tremendamente in colpa per tutto questo, come lo sentiva per Quel Vecchiaccio con una crisi di mezz'età con cui condivideva l'appartamento, che dormiva nella stessa camera in cui dormiva sua madre, ma di cui non si era appropriato. In quella stanza, c'erano ancora gli oggetti di Hanna, i suoi vestiti nell'armadio, i libri con quelle orecchie ai lati delle pagine, che tanto odiavano Charlie e Victor, accatastati sul comodino. Come se da un momento all'altro lei dovesse tornare a viverci. Come se potesse. Price non era più riuscito ad entrare in quella camera, il massimo che era riuscito a fare era fermarsi sulla soglia ed osservare. Prima o poi avrebbe dovuto andare avanti, come aveva detto a suo zio.

White poggiò la testa sulla sua sospirando come se rimanere in silenzio lo sfiancasse. «Vick».

«Dimmi.» Finalmente aveva rotto quel tipo di silenzio che odiava. Poteva, quasi ironicamente, tornare a respirare. Un accenno di sorriso si dipinse sulle sue labbra.

«Devi mettere un dollaro nel barattolo delle parolacce», sentì il viso piegarsi in un sorriso, probabilmente sghembo, sulla sua testa.

«'Fanculo», sussurrò con il sorriso che si allargava.

«Questa ne vale almeno cinque di dollari», sghignazzò mentre il teppista alzava gli occhi al cielo. «Ti eri dimenticato?»

Victor sollevò il capo per guardarlo in viso, aggrottò le sopracciglia, confuso. Una tacita domanda sul suo volto emaciato.

E il tempo scivola viaWhere stories live. Discover now