Il crollo

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Ogni sera tornavo puntualmente nell'hotel in cui avevo deciso di alloggiare; avevo solo avvertito James che sarei rimasta da mia sorella più del previsto e che sarei andata al lavoro da lì.
Le motivazioni del mio gesto erano molteplici e spesso mi ripetevo quanto fossi codarda a scappare invece che affrontare il problema, ma la verità era che il solo pensiero di scontrarmi con tutta la situazione mi faceva sudare freddo e tremare le gambe.
La porta sobbalzò al bussare incessante di qualcuno e mi alzai dal letto, chiedendo chi fosse; la voce della receptionist venne attutita dal legno, mentre mi rispondeva e, aprendo la porta, me la trovai davanti con i suoi boccoli castani e un sorriso smagliante mentre mi porgeva qualcosa.
«Questo è il tuo documento, Amanda.» Sorrise maggiormente e afferrai la carta, ricambiando il gesto.
«Grazie.» Feci per rientrare, ma riprese a parlare.
«Non ti ricordi di me?» Ridacchiò, mettendosi una ciocca di capelli dietro le orecchie, ma tornarono subito alla posizione di partenza.
Non volevo essere scortese o altro, ma proprio non ricordavo chi fosse.
«Mi spiace, ma non riesco ad associare il tuo viso a un nome.» Ridacchiai per l'imbarazzo e lei entrò nella stanza come un lampo, chiudendo poi la porta alle sue spalle.
«Tranquilla,» sorrise, sedendosi sul letto; «sono Candice» pronunciò fiera, mentre le immagini collegate al suo nome mi passarono davanti come un treno in corsa.
Ogni volta che mi aveva derisa, lasciandomi nella mia disperazione, ogni ragazzo del quale mi invaghivo con cui si baciava davanti ai miei occhi, tutte quelle brutte situazioni che mi aveva fatto passare, riaffiorarono.
Non bastava la storia di James, Luke e Yuri, doveva per forza mettersi in mezzo quella troia di Candice.
«Vattene» iniziai piano, al culmine della sopportazione; un'espressione confusa si fece spazio sul suo viso e si alzò, venendomi incontro.
«Amanda, senti mi...» Non la lasciai finire, non volevo più sentire voci inutili, ero stanca di tutto, basta.
«Ho detto vattene!» ripetei, alzando di qualche tono la mia voce; lei si zittì ed uscì dalla stanza. Finalmente fui sola di nuovo e potei concentrarmi sul lavoro che mi aspettava l'indomani; dato che non avevo nulla fuorchè il mio telefono, fui costretta ad accontentarmi di questo per cercare un volo per l'Inghilterra.
La serata procedette in modo abbastanza noioso e monotono, ma non mi lamentavo. Dopo tutto ciò che era successo mi andava più che bene che ci fossero dei momenti tranquilli; mi rilassai sul letto, guardando qualcosa che trasmettevano in televisione e, passate le undici, un sonno improvviso mi investii, facendomi addormentare ancora vestita.


Svegliandomi, percepii un freddo pungente sulla pelle; mi alzai con il busto per constatare il motivo di tutto quel freddo e notai che l'aria condizionata era accesa, nonostante fuori ci fossero solamente quindici gradi. Per una persona normale non era di certo una temperatura fredda, ma per me era come ritrovarmi in Alaska in costume da bagno. Spensi quell'aggeggio, andando nel minuscolo bagno per farmi una bella doccia bollente; almeno quella c'era ancora. Mi vestii abbastanza in fretta, dandomi una leggera passata di trucco e scesi per andare al lavoro; quando passai davanti a Candice non la degnai di uno sguardo e lei fece altrettanto.
Entrai nella mia macchina, dirigendomi verso l'ufficio, quando il mio telefono prese a squillare, lessi velocemente il nome di James e sbuffai, lasciandolo suonare; era l'ultima persona con cui avrei voluto avere a che fare, anche se sapevo che prima o poi sarei dovuta tornare da lui.


Nell'ufficio tirava un'aria pesante, i miei colleghi erano in fermento per chissà quale motivo e mi affrettai a capire cosa fosse accaduto.
«Hey, ma che succede?» chiesi a Silvia, la nostra corrispondente italiana.
«Non lo hai sentito alla radio?» La mia espressione stupefatta le bastò come risposta; era da tempo che non ascoltavo la radio in macchina, ero sempre di fretta e poi non ci badavo comunque molto. «Hanno arrestato il figlio di Victor per spaccio di droga e quindi sta dando di matto cercando di capire come sia potuto accadere» continuò. Victor era il capo dell'azienda, sapevo avesse un figlio, ma non credevo che avesse l'età per quel tipo di cose.
«Quanti anni ha suo figlio?»
«Dovrebbe farne diciannove a fine mese.» Mi chiesi come facesse ad essere così informata, ma era meglio non immischiarmi.
«Ok, grazie mille.» Sorrisi, dirigendomi verso la mia scrivania e man mano che mi avvicinavo, il caos aumentava e le urla si facevano più intense.
«AMANDA SEYFRIED!» mi sentii chiamare, con tono grave e deciso, proprio da Victor; entrai nel suo ufficio quatta quatta e appena lo guardai in volto, scorsi delle vene pulsanti proprio sulla tempia e sul collo, per non parlare del colorito vermiglio che caratterizzava il suo viso.
«Mi dica» iniziai, accennando un sorriso timido.
«Vada nel college di mio figlio parlando con chiunque lo conosca e intendo CHIUNQUE!» Strinse un pugno e io deglutii.
«E che college frequenta?»
"Non quello, non quello, non quello", pensai.
«La New York University Stern School. Vada, veloce!» Mi liquidò con un gesto della mano e mentre uscivo dall'edificio con il cuore che batteva a mille, un solo pensiero mi occupava la mente: se qualcosa può andare peggio, di sicuro andrà così.



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