Inghilterra

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Quell'inconfondibile profumo mi invade le narici, il suo corpo caldo e nudo contro il mio mi sembra il paradiso. Un gesto, veloce, improvviso, mi fa sussultare dal piacere; ansimo, prima piano, poi sempre più forte, fino ad urlare il suo nome che sembra ancora più dolce pronunciato in questo contesto. Sono bollente, ma quando mi bacia, il contatto fresco con il suo piercing mi fa fremere tutta.

Aprii gli occhi di scatto, sudata, ansimante e con un desiderio che mi divorava. Non facevo mai sogni erotici, perché doveva capitarmi proprio con la persona meno indicata sulla terra?
Mi alzai cercando di rallentare i battiti del mio cuore e mi diressi verso il bagno, vi entrai, osservando la mia figura allo specchio. Mi aspettava una giornata intensa e piena di lavoro.
Tornai in camera prendendo la valigia che non avevo ancora disfatto e la buttai sul letto, cercando una tuta per stare più comoda.
Il giorno seguente avrei dovuto incontrare un cliente, Victor mi aveva dato solo l'indirizzo, senza darmi altre informazioni, quindi non avevo la benché minima idea di come fosse fatto il suddetto individuo, ma ero abbastanza sicura fosse un uomo, al che cominciavo a capire perché avesse mandato proprio me.
Mi raccolsi i capelli in una coda alta con ciuffi che spuntavano ovunque, quando, d'un tratto, si sentirono dei grossi pugni battere con insistenza sulla porta che separava la mia camera da quella di Gregg.
«Chi è?» chiesi, anche se sapevo già che fosse lui.
«Sono il tuo amico» iniziò, accennando una lieve ironia alla parola "amico", «guarda che esco... non so quando torno, quindi non cercarmi.» Quel tono pungente non fece altro che alimentare la mia avversità nei suoi confronti.
«Va bene!» urlai a mia volta, senza nascondere la mia irritazione. Sentii dei rumori provenire dalla sua stanza e poi una porta che si apriva e si richiudeva con uno scatto secco. Finalmente ero sola e potevo concentrarmi sul mio lavoro.





Quando rialzai gli occhi dal computer il sole era già calato e la stanchezza si faceva sentire: il fuso orario mi aveva leggermente destabilizzata.
Presi il telefono, constatando che erano le sette di sera e non avevo toccato cibo per tutto il giorno; sbuffai, alzandomi per andare a prendere qualcosa nel frigo bar della camera, ma notando i prezzi leggermente alti, decisi di scendere nella hall per andare al bar dell'albergo.
Il mio look non era esattamente il più adatto a mostrarmi alla gente, quindi mi cambiai, mettendo un paio di jeans e una felpa. Non mi importava di essere elegante, ma almeno presentabile.
Uscii dalla stanza scendendo nel vastissimo ingresso e notando della gente comodamente sistemata sulle poltrone, forse pronta per uscire in quella fredda serata di metà novembre.
Il bar era abbastanza esteso, ma d'altronde in quel posto lo era tutto; mi accomodai su uno sgabello di fronte al bancone, attendendo che qualcuno venisse a porgermi una lista o comunque un qualunque pezzo di carta per farmi scegliere qualcosa da mettere sotto i denti.
«Desidera?» Osservai il ragazzo che aveva parlato con tanto di sorriso stampato in faccia.
«Cosa si può mangiare?» Si spostò dalla mia visuale, andando a trafficare sotto il bancone per poi pormi una lista con elencate varie bevande e cibarie. Lo ringraziai sorridendo, iniziando a scorrere con lo sguardo ogni possibilità. Alla fine optai per un trancio di pizza e un "cocktail della casa", sperando di non pentirmene.
Quando il ragazzo mi porse i miei ordini, mi fiondai subito sulla pizza che, con mia grande sfortuna, non aveva il sapore e il gusto che desideravo, ma pur di mangiare mi sarei accontentata di qualunque cosa; dopo essermi rifocillata per bene passai al drink: aveva un sapore agrodolce che non era proprio di mio gradimento, ma tutto sommato accettabile.
«Aveva molta fame.» Il ragazzo che mi aveva servita mi fissava divertito, probabilmente aveva assistito a tutta la mia abbuffata.
«Sì, abbastanza.» Risi lievemente, osservando i lineamenti del suo viso; era ben piazzato, con i capelli chiari un po' spettinati e gli occhi verdi splendenti. Un ragazzo niente male.
«È sposata?» Si avvicinò a me finché non me lo ritrovai di fronte, spostai il piatto facendo un sorso del drink.
«No, non sono sposata e non sono neanche così vecchia per darmi del lei.» Sorrisi e lui si passò una mano nella chioma spettinata, cercando di metterla a posto.
«Bene, allora posso sapere il tuo nome?» Mi sorrise ancora, spostandosi sotto alla luce soffusa che puntava proprio sul tavolo dove era appoggiato il mio bicchiere, lasciandomi intravedere un accenno di barba.
«Mi chiamo Amanda e sono americana, il tuo?» Mi passai la lingua sulle labbra sentendole secche e vidi i suoi occhi seguire quel gesto con un'intensità tale da potermele consumare.
«Mi chiamo Andrea e sono italiano.» Ridacchiò, spostando di nuovo lo sguardo nei miei occhi, sorrisi ricambiando lo sguardo per poi finire il mio drink.
«Adoro la pizza italiana.» Abbassai subito lo sguardo, sentendomi leggermente in imbarazzo. Non sapevo come mi fosse uscita quella frase, infatti lui rise di gusto.
«Quella non era una pizza italiana.» Mi rivolse un sorriso degno di esser definito tale, a trentadue denti, e io mi sentii avvampare, ma forse era colpa del cocktail.
«Si sentiva, non aveva lo stesso sapore» ammisi, iniziando a giocherellare con il mio bicchiere.
«Ti farei personalmente una bella pizza italiana... se solo ne fossi capace.» Rise appoggiandosi con i gomiti proprio davanti a me, alzai lo sguardo incrociando il suo. Intorno a noi c'era un silenzio di tomba e la cosa mi metteva in soggezione.
«Come mai non c'è nessuno? Dovrebbero essere a mangiare.» Mi osservai un po' attorno per poi riportare l'attenzione su di lui.
«Infatti sono tutti nella sala accanto a gustarsi una buona cenetta.» Si alzò dal suo appoggio, stiracchiandosi leggermente. «Quindi il bar rimane deserto fino alle nove passate, anzi, mi stupisco di come tu possa essere qua.» Mi regalò un nuovo sorriso, appoggiandosi ancora al bancone, ma stavolta solo con le mani.
«Ho lavorato fino adesso e non so neanche se avevo un tavolo prenotato.» Rigirai il bicchiere tra le mani.
«Se mi porgi la tua tessera te lo dico senz'altro.» Si staccò di nuovo dal suo appoggio e presi la tessera dalla tasca dei jeans, consegnandogliela. La passò in un lettore e il suo viso si incupì in meno di un secondo; ritrasse la tessera per ridarmela.
«Qualcosa non va?» gli chiesi, vedendo che era tornato a sistemare qualcosa sulla credenza alle sue spalle.
«Avresti dovuto dirmi prima che stai assieme al figlio di Victor, anche se ti credevo leggermente più grande.» Mi parve di sentire uno sbuffo uscire dalla sua bocca e subito mi alzai, rischiando di far cadere lo sgabello.
«Come siamo passati da darmi del lei al pensare che io stia insieme al figlio del mio capo?!» Marcai le ultime parole, appoggiando con violenza le mani sul bancone: ero stufa che tutti capissero tutto tranne che la verità. Ovunque andassi ognuno interpretava la realtà a proprio modo, senza chiedere nulla alla sottoscritta. Odiavo venissero fatte delle supposizioni inutili e soprattutto stupide.
Si voltò lentamente, posando il bicchiere che aveva in mano, si mosse allontanandosi dietro la struttura e io rimasi in piedi come una scema ad osservare il punto in cui era scomparso. Feci per voltarmi, stanzca e nervosa, andando nella mia stanza, finché non mi comparve di fronte la figura di Andrea, impedendomi di fare un altro passo.
«Scusami, non era mia intenzione... non lo sapevo.» Sospirò, distogliendo lo sguardo da me; non era troppo alto, anzi, non dovevo alzare di molto il viso per incrociare i suoi occhi.
«Fa niente...» Sospirai anche io, cambiando direzione per sorpassarlo. Non avevo voglia di discutere o di stare in compagnia di qualcuno. Il fuso orario e la stanchezza dovuta alla giornata passata a lavorare reclamavano una nottata di sonno
«Ti va di bere qualcosa?» Sentii un accenno di speranza nel suo tono, ma proprio non ne avevo né la voglia né la forza.
«No scusa, sono stanca.» Non gli diedi il tempo di replicare una sola sillaba che mi allontanai di fretta, ripercorrendo la strada al contrario per tornare in camera; stava andando tutto bene, era anche carino, ma quella piccola incomprensione aveva rovinato tutto.




La porta si aprì e si richiuse in un baleno, annunciando quello che avrebbe dovuto essere Gregg; mi affacciai alla sua camera, aprendo ciò che divideva le nostre stanze di poco e scorsi due figure unite che si baciavano; richiusi in fretta la porta stando attenta a non far rumore e mi allontanai. Quel ragazzo era proprio come James: uno schifoso traditore.
Dapprima un fruscìo di vestiti e poi iniziarono i gemiti, sempre più forti; lo maledissi mentalmente cercando qualcosa che potesse coprirmi le orecchie per non sentire quelle urla, ma non avevo delle cuffiette o dei paraorecchie, quindi dovetti accontentarmi di sdraiarmi sotto le coperte, avvolgendomi il cuscino attorno al viso. Sentivo lo stesso quei rumori fastidiosi, ma per lo meno erano più attutiti e lontani; sbuffai sperando di riuscire a prendere sonno il più in fretta possibile, ma temevo che non sarebbe stato così.





Dopo essermi svegliata ancora avvolta nel cuscino, mi alzai stiracchiandomi per sentire subito delle botte sulla porta; ancora in pigiama andai ad aprire trovandomi Gregg seminudo che mi fissava dall'alto.
«Oggi esco» decretò, con un'espressione seria in viso. Diedi un'occhiata al letto dietro di lui che era già vuoto.
«Sì... va bene, anche io esco.» Mi ritirai subito nella mia stanza chiudendogli la porta in faccia.
Sentii uno sbuffo provenire dall'altra parte e scossi la testa andando in bagno: quella mattina sarei dovuta andare a concludere quel contratto e una lieve ansia mi faceva scombussolare lo stomaco, speravo solo che andasse tutto per il meglio e che il cliente rimanesse soddisfatto.




Controllai l'indirizzo che il mio capo mi aveva lasciato una terza volta, quando, il tassista mi confermò che eravamo arrivati.
Pagai il signore e tornai ad osservare il palazzo che si ergeva di fronte a me; non sembrava affatto appartenere ad un'azienda. Diedi un'ultima occhiata al numero civico indicato insieme all'indirizzo e alzai di nuovo lo sguardo sul cancello che segnava lo stesso numero, suonando il campanello.
«Chi è?» Una voce maschile apparentemente giovanile mi rispose; indugiai un attimo, prendendo un respiro profondo, e mi feci coraggio. Era solo un cliente con cui dovevo concludere un contratto, niente di impossibile.
«Sono qui in rappresentanza di Victor Henkins.» Il silenzio calò per qualche secondo, tanto che pensai davvero che perfino il tassista avesse sbagliato indirizzo, ma il cancello scattò, indicandomi la sua apertura.
Lo spalancai per entrare, avvicinandomi alla porta che intanto si stava aprendo.
Mi chiesi ancora una volta perché non fosse in un'azienda; chiusi un attimo gli occhi, respirando a pieni polmoni e stringendo le dita attorno alla mia borsa.
Una domanda mi sorse spontanea quando riaprii gli occhi e comparve il ragazzo: con tutte le persone che esistevano al mondo, perché dovevo ritrovarmi proprio lui?

~
*revisionato*

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