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Quando arrivai a casa Harrison la situazione era piuttosto disastrosa.

«Ho bisogno d'aiuto con Asher e Jake.» disse Jas con gli occhi gonfi e rossi.
«Va bene.» spalancai le braccia facendogli un cenno.

Lui esitò, tentando di nascondersi dietro una fasulla e fragile corazza da duro.
Poi si lasciò andare fra le mie braccia, incastrando il viso nella mia spalla, fra i miei folti capelli, dove nessuno poteva vedere il dolore mangiargli le viscere.

«Perché proprio lei?» domandò con un filo di voce.
«Meglio non chiederselo.» sussurrai «Ora curati di te, Jas.»
«Non posso, Ang, i miei fratelli...» si staccò raccogliendo abilmente le lacrime.
Lo sorpassai dirigendomi nel salone, ravvisando rumorosi frantumi. Jake, a cui era stata diagnosticata una iperattività e scarso controllo delle emozioni l'anno prima dopo l'incidente che aveva avuto, stava lanciando degli oggetti contro le pareti circostanti.

«Jake.» squittii portando una mano alla bocca.
«Che diavolo ci fai tu qui?» gridò fuori di sé.
«Smettila.» Jas si avventò su di lui strappandogli dalle mani una statuetta di un cigno in bronzo.
«Ci pensi tu a lui?» domandai.
«Sì, Ash è in camera sua.»
«Tuo padre? Josh? Aron?»
«Non lo so.» scosse il capo frustrato.

Salii le scale silenziosamente, cercando di cogliere qualsiasi piccolo rumore attorno a me. Era come se da un momento all'altro mi aspettassi di sentire i singhiozzi di qualcuno. Vagavo per quel corridoio con un nodo alla gola costante.

Bussai alla camera del piccolo Asher.
«Ash.»
Non rispose, perciò aprii piano piano la porta.

Era steso sul lato destro del letto, con le spalle rivolte verso di me. Forse non mi aveva nemmeno sentita bussare.
A passo leggero feci il giro, cercando conferma nei suoi occhi aperti, non volevo infastidirlo, sapevo non fosse un momento semplice per nessuno di loro.

«Ehi.» sussurrai.
Lui fece scattare gli occhi rossi, intrisi di lacrime su di me, poi, come un bambino ferito, nascose il volto sul cuscino.
Mi sedetti e poggiai una mano sulla sua schiena.
«Posso stare un po' qui a farti compagnia?»
Lui annuì silenziosamente.
«Vuoi parlarne?» domandai.
Scosse il capo freneticamente.
«Va bene.» sospirai.

Restammo così per almeno un'ora, lui guardava il vuoto in silenzio ed io di tanto in tanto avevo cercato di farlo parlare. Alla fine mi decisi ad uscire di lì e di dargli un po' di spazio, magari era quello che cercava.

Appena uscita dalla stanza mi ero accorta che il caos non si udiva più, c'era una strana quiete. Percepivo che l'atmosfera giocosa e positiva era cambiata, si era spezzato qualcosa, forse per sempre. Cercai Jason, ma non lo trovai, non era nella sua camera e nemmeno in palestra. Doveva essere uscito, così come degli altri non c'era traccia.

Ero rimasta in cucina, mi ero preparata una tisana e dopo qualche istante in silenzio, ero scoppiata a piangere. Faceva male.
Lei non c'era più.

Non riuscivo a realizzare. Da quel momento in poi Shailene Harrison non ci sarebbe mai più stata.

Quella che consideravo una seconda madre, non l'avrei più rivista. Non avrei più potuto fare affidamento su di lei, quando la situazione a casa mia si faceva troppo restrittiva, serrata, asfissiante.
Come era possibile?

Gli diedi il bicchiere d'acqua che ero scesa a prendere.
«Hai fame?» chiesi dolcemente.
«No.» rispose con una vocina.
«Sono andata a cercare tuo padre, ma credo sia impegnato a lavoro.» mentii.

Passando davanti alla porta dell'ufficio, avevo udito degli strani singhiozzi, così avevo sbirciato e con il cuore in gola, avevo visto Klark, un uomo che ho sempre ammirato per la sua forza, piegato sulla scrivania immerso in un rumoroso pianto disperato.
Avevo poggiato la mano sulla porta, poi per paura di scoppiare in lacrime ero corsa in cucina. Volevo essere forte, per tutti loro e per lei. Non riuscivo a dimenticare le sue ultime parole, mi ronzavano in testa come una fastidiosa mosca. E per farle tacere mi impegnavo solo a fare quello che le avevo promesso.

Unconditionally mine || Saga HarrisonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora