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Riunite in cerchio nella palestra della scuola, ascoltavamo ognuna il motivo per cui ci trovavamo lì quella sera.

Ero arrivata per ultima, perciò chiudevo il cerchio. Ascoltando le varie storie delle donne accanto o di fronte a me, non riuscivo a non domandarmi: Che cosa ci faccio qui?
Le loro erano storie concrete, sentite. Io non avevo una causa vera e propria che mi aveva spinta lì.

Allora perché siedi con loro?
Avevo preso il bus ed ero entrata, forse per sfuggire allo studio e alla pressione del test attitudinale che avrei avuto dopo qualche giorno.
Non avevo una storia come quella di Zelda, donna afro-americana di 46 anni, la quale cercava un sostegno, da parte di altre donne nella sua situazione, per riuscire a denunciare il marito. Ci disse che spesso tornava dai bar o dalle bische ubriaco e le sferrava qualche colpo: "Ma non lo fa apposta, la sua ragione è inibita, lui mi ama e io amo lui". Non riusciva a pensare di iniziare una nuova vita senza suo marito, ma era stanca e lo aveva detto buttando fuori uno sbuffo sonoro, come se fosse la prima volta per lei ammettere ad alta voce di non riuscire più a sopportarlo.

Lexy invece, ragazza di 33 anni, aveva denunciato a gran voce lo stupro da parte di un importante uomo diplomatico, ma non aveva gridato abbastanza forte, perché il giudice aveva assolto l'uomo, asserendo che lei era solo una donna arrabbiata e frustrata. Perciò si trovava lì in cerca di un esercito, donne disposte a rendere quella voce così potente da spedire in carcere l'uomo. Con gli occhi neri di rabbia aveva detto: "Quel farabutto deve avere ciò che merita".

Talvolta Sabina, 43enne, ci aveva raccontato quanto fin da bambina avesse discusso con chiunque trovasse divertente scherzare su stereotipi ormai affibbiati alla donna da secoli. Così convinta della sua causa, che aveva rifiutato di sposare quello che sarebbe divenuto suo marito, poiché aveva obbligato sua sorella a cambiarsi l'abito: "siamo a un matrimonio, non in un bordello". Oppure delle pubblicità sulla tv, dove la donna era sempre rappresentata per il suo fisico e mai per la sua intelligenza. "Persino nei programmi, la donna è presentatrice per lo più di talk show basati sul gossip." Nessuno aveva mai compreso questa sua visione del mondo, aveva cercato per molti anni un gruppo di femministe a cui unirsi, ma la città è così piccola che non ce n'era mai stato uno importante.

Felicity, ragazza di 26 anni, allo stesso modo era sottoposta a continui stereotipi. In particolare: "Non posso fare carriera ai piani alti, pur avendo le competenze adatte, perché il ruolo di dirigenza spetta agli uomini". Con sgomento ci rivelò che lavorava in quell'azienda ormai da 8 anni e aveva visto 13 promozioni di suoi colleghi uomini con meno esperienza, lì da meno tempo e nemmeno con una grande capacità dirigenziale. Aveva fatto molto per l'azienda, soprattutto per il suo direttore, era praticamente il braccio destro, la maggior parte delle volte i progetti che lui presentava al consiglio d'amministrazione, firmandosi come autore, in verità appartenevano interamente a lei. Ed era lì perché cercava una soluzione, non solo per sé stessa, ma per tutte quelle donne che si sentivano sottovalutate come lei.

Toccava a me.
«Ciao, sono Angelica, ho 18 anni e non sono certa del motivo per cui mi trovo qui...» giocavo con le dita imbarazzata «...non mi sono mai trovata nella posizione di dire "Chissà se altre donne stanno vivendo quello ho subito io". Non ho mai avuto una migliore amica, vivo le mie amicizie per lo più in un ambiente maschile.»
Nessuna di loro mi guardò come se fossi un'estranea, come se dovessi lasciare quella piccola riunione seduta stante. Mi rivolsero solo quel sorriso, quello che indica la voglia di ascoltare le parole dell'altra persona. Perciò continuai, con la persistente domanda: Che cosa ci faccio qui?
«Ho subito molte discriminazioni soprattutto per via del colore della mia pelle e delle mie origini arabe. Ho sempre pensato di essere pronta ad affrontarle, mi sono detta: "Angelica, può succedere, sei in un paese dove il razzismo c'è, rimboccati le maniche e combatti". Non credevo però, che la mia comunità mi potesse voltare le spalle.» deglutii abbassando lo sguardo «I miei genitori sono musulmani ed io da qualche anno ho scelto di non credere più. Nonostante io sia miscredente, ho sempre partecipato alle feste della comunità islamica di questa città. Ieri, con la festa di fine Ramadan a cui ho partecipato, ho assistito alla prima discriminazione da quella che ho sempre creduto fosse la mia comunità, mi hanno chiamata "Sporca americana".»
«Forse sei qui per questo.» sorrise la ragazza che mi aveva dato il volantino «Sei alla ricerca di una nuova comunità, dove sentirti accettata per quello che sei.»
La osservai rapita dalla sua affermazione.
«Siamo felici di aver ascoltato le vostre storie.» constatò l'organizzatrice «Noi abbiamo deciso di creare questo movimento per supportarci, qualsiasi sia la vostra battaglia.» mi lanciò un'occhiatina di sostegno «Qui potete trovare tutto il conforto, la comprensione e il sostegno che non avete trovato prima. Abbiamo in mente di portare avanti qualche progetto per combattere la discriminazione di genere e spero che abbiate voglia di parteciparvi.»
«Ci riuniremo ogni venerdì pomeriggio e dopo la riunione, se avete voglia, possiamo stuzzicare il cibo che ognuno di noi può portare liberamente. Se avete altre persone interessate, che vogliono conoscere il nostro mondo, saranno ben accette.» affermò l'altra ragazza.
«Avete domande?» chiese l'altra organizzatrice, Jane.
«Sì!» Felicity alzò la mano.
«Prego.» fece un cenno.
«Perché avete scelto il nome Femministe dei Bassi Fondi?»
«Perché io e mia sorella.» Jane indicò l'organizzatrice accanto a lei «Veniamo da un quartiere considerato povero. Ed è anche un modo per informare le persone che non vogliamo essere presuntuose o capricciose, vogliamo solo ciò che ci spetta di diritto.»
Battemmo le mani all'unisono.

Unconditionally mine || Saga HarrisonWhere stories live. Discover now