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Facevo avanti e indietro per la grande sala d'attesa, con le pareti rivestite di sfarzosi dipinti in stile rinascimento italiano. Aveva una volta così alta e ampia che qualsiasi rumore era amplificato.
«Ang.» mi richiamò Asher.
«Sì?» risposi con voce tremolante.
«Dovresti calmarti.»
Lui se ne stava lì da un po', ad osservarmi silenziosamente.
Mi voltai di scatto rivolgendogli un'occhiataccia.
«Come posso calmarmi se sto per fare il colloquio che cambierà per sempre la mia vita?» gracchiai.
«Sicuramente se entrerai così ansiosa non andrà bene.» constatò.
«Grazie per il suggerimento.» feci una smorfia.
«Vieni.» accennò alla sedia accanto a lui.
Perché è qui?
Sapevo che avrei dovuto impedirgli di venire. Questo tipo di cose ero più brava a farle da sola. Sapevo persino come ritrovare la calma quando ormai sembrava persa. Invece lui con quei suoi occhioni grigi se ne stava lì a fissarmi mentre facevo avanti e indietro, tentando di mettere in pratica i miei metodi per calmarmi.
Mi metteva ancora più pressione.
Mi sedei accanto a lui.
«Come va con il gruppo di femministe?» chiese.
«Dobbiamo parlarne ora?» gracchiai.
«Sì.» sancì severo.
Aggrottai le sopracciglia in disappunto.
«Va bene... Sono persone fantastiche, mi hanno aiutato loro con la questione del ballo di fine anno.»
«Posso chiederti perché hai deciso di unirti a loro?»
Già, perché?
Ogni volta che il mio pensiero si rivolgeva a questo discorso, ripensavo al primo incontro a cui avevo partecipato. Una parte di me non voleva ancora abbandonare la comunità con cui ero cresciuta, però, dall'altro lato il loro modo di discriminarmi, di mettermi all'angolo quella sera, mi aveva fatta sentire stranamente fuori luogo, oltre che tradita.
«Sono cresciuta in una comunità di musulmani, con cui ogni anno la mia famiglia condivideva le feste della nostra religione» dissi distrattamente «Poi ho scelto di essere una miscredente, così hanno iniziato ad emarginarmi. Ho passato davvero dei bei momenti in quella comunità quando ero piccola, è sempre stata parte integrante della mia famiglia. Quando ho scelto di non professare, è come se fossi divenuta di punto in bianco un'estranea. Ogni volta che metto piede nel retro bottega di Ibrahim per una festa, mi lanciano addosso tutta la loro disapprovazione. Per non parlare di Badra, la madre di Tariq, che mi ha definita come una peste ambulante.»
«Quindi Tariq si sente autorizzato a chiamarti Sporca Americana per questo.» annuì.
«Fra tutti, lui è quello che mi infastidisce di più. Commette gli atti più riprovevoli per la fede islamica, beve alle feste, fuma e non escludo che abbia fatto uso di droga. Poi ci prova con tuo fratello...»
«Con Jas?» abbozzò un sorriso divertito.
«Sì, prima che scoppiasse la rissa quella sera, stavano flirtando.» sorrisi.
«Io pensavo che in qualche modo controverso lui ci stesse provando con te.»
«Con me?» alzai un sopracciglio.
«Sì, a volte noi maschi siamo talmente idioti da irritare la ragazza che ci piace per farla avvicinare.»
«I bambini lo fanno.» osservai divertita.
«No, ti assicuro che anche ai più grandi piace questo metodo...» ammiccò lanciandomi un'occhiata furba.
Schiarii la voce agitata «Quindi, alla fine credo di essere entrata a far parte delle Femministe Dei Bassi Fondi perché da un po'non mi sento più accettata da loro.»
Lui annuì.
«Angelica Dalmar?» una donna con un elenco in mano aprì di scatto la porta dell'ufficio.
Mi alzai in piedi «S-sì, eccomi.»
«Venga.» mi sorrise cordialmente.
Prima di entrare, mi voltai istintivamente verso Asher, alla ricerca di un qualcosa di ben preciso. Forse una speranza, forse la calma o forse il coraggio. Lui ricambiò lo sguardo intensamente.
«Io ti aspetto qui.» sorrise rassicurandomi. Quelle parole mi provocarono una strana sensazione, era come se il mio cuore venisse avvolto da una lieve scarica.

Qualche istante dopo sedevo di fronte alla donna che aveva aperto la porta, ora impegnata nella ricerca di alcune scartoffie; la osservai, indossava una camicia bianca con il tipico maglioncino di rappresentanza di Harvard. Affianco a lei vi erano altre due persone, un uomo dai capelli bianchi e un ragazzo con gli occhiali, anche loro indossavano la maglia di Harvard.
«Allora» alzò lo sguardo su di me «Presentati e raccontami qualcosa di te.»
«Sono Angelica Dalmar, sono nata a Burlington, ma ho origini Arabo-africane...»
Così iniziai a narrarle gran parte della mia vita, delle mie abitudini e delle mie passioni. Mi ero preparata per quel colloquio, avevo cercato on-line tutte le domande possibili, avevo fatto decine di isolati dentro la mia stanza rispondendo a quelle domande. Volevo che ogni discorso filasse, che non vi fossero incertezze, perché Harvard nella storia ha sempre cercato persone dalle convinzioni salde, decise e pronte ad affrontare un percorso tosto.
Non sapevo quali di tutte quelle domande a cui, nelle settimane precedenti, avevo risposto, mi avrebbero fatto, ma avevo già messo in conto che ci sarebbe stato l'imprevisto, sarebbe stato troppo semplice altrimenti.
Dopo minuti di domande volte al contenuto e a comprendere il mio livello di logica, altre indirizzate sulla mia persona, finalmente concluse.
«Bene, signorina è stato un piacere colloquiare con lei. L'esito dell'ammissione all'università di Harvard le verrà inviato per posta. Se verrà accettata, nella lettera troverà le informazioni necessarie per iniziare il suo percorso di studi. Harvard si impegna ad inviare la lettera entro dieci giorni.» concluse.
«D'accordo, arrivederci.» mi alzai lentamente, per non destare sospetti sull'incessante ansia che ancora mi premeva il petto.
Appena misi fuori un piede dalla stanza, Asher si alzò di scatto.
«Allora?» chiese.
«Io...» cercai di formulare una frase, ma dopo tutte quelle parole spese nel colloquio, ero a corto di argomentazioni «...credo bene.»
Lui allargò le braccia ed io lo guardai con il fiato sospeso. Dopo quello che ci eravamo detti all'interno dello sgabuzzino del bidello, volevo evitare qualsiasi contatto fisico, avevo l'impressione che fosse il modo migliore per non motivare quel costante fuoco che ormai sentivo per lui.
Esitai per troppi secondi, perché lui sciolse le braccia e annuì deluso. Mi morsi una guancia, odiavo quando succedeva, quando quegli occhi color avio passavano da un positivo ceruleo ad un triste grigio, per colpa mia. E lo odiavo così tanto, che arrivavo persino ad odiare me stessa.
«Andiamo a casa?» chiese.
«Che ne dici di prenderci qualcosa da bere allo Zero?» gli proposi per rimediare al danno.
«D'accordo.» annuì.

Unconditionally mine || Saga HarrisonWhere stories live. Discover now