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Non mi ero nemmeno degnata di presentarmi in condizioni migliori. Appena la mente aveva elaborato le parole di mia madre, mi ero precipitata in salotto per vederlo con i miei occhi.

Se ne stava in piedi di fronte alla finestra con lo sguardo rivolto al vialetto fuori casa. Indossava un paio di pantaloni corti neri e una t-shirt grigia che metteva in risalto i tatuaggi sulle sue braccia muscolose. Sembrava... tranquillo, avvolto nella sua solita aura di pacatezza e riservatezza.

Ma non mi rilassai, almeno non fino a quando si rivolse verso di me e mi guardò negli occhi.

Non tentai di mascherare il respiro che mi si mozzò. Non ci vedevamo da solo una settimana, eppure mi sembrava essere stato un tempo infinito.

«Ciao.» disse. La sua voce era vellutata e leggermente roca, un miscuglio micidiale per il mio stomaco ancora sottosopra.

Feci un piccolo passo «Ehi.»
Lui mi squadrò, soffermandosi sui miei capelli spettinati ed intrecciati o forse sul mio viso ancora biancastro. Abbassai gli occhi imbarazzata.

«Che ne dici se parliamo un po'?» chiese.

«Sì.» annuii cercando disperatamente un briciolo della mia sicurezza.

Mi guardai attorno pensando a dove fosse meglio parlare. Non volevo che mia madre ci sentisse, non sapeva per quale motivo mi ero ridotta in quello stato, anche se sospettava centrasse Ash, non poteva sapere che l'avevo tradito.

«Che ne dici di andare...» dire la parola "camera" m'imbarazzò. "Camera" era un luogo ricco di ricordi, in cui, se fosse stata davvero la fine fra noi, non sarei voluta più rientrare. «...nello studio di mio padre?»

Lui alzò una mano in direzione delle scale, in segno di fargli strada.

Sentii una fitta al petto nel realizzare che avremmo affrontato la questione. Significava che avrei dovuto rivelargli ciò che avevo sognato. E allora, solo allora, mi avrebbe lasciato. Ne ero certa.

Aprii la porta dello studio. Il sole della mattina penetrava nella stanza. I raggi che filtravano dalla finestra facevano sembrare la polvere fluttuante qualcosa di bello e magico. Entrare in quell'ufficio mi aveva sempre ricordato una biblioteca. I libri immobili e silenziosi nei grandi scaffali colmavano il vuoto e attutivano qualsiasi rumore. Non sapevo nemmeno di cosa trattassero, forse medicina. Eppure era come se quando mettevi piede lì, fossero vivi e allora mi sentivo meno sola. Era un mondo a parte quella stanza. Aveva persino un odore tutto suo.

Asher rimase in silenzio e prese a vagare davanti alle imponenti librerie a muro, passando le sue dita sui dorsi dei libri vecchi.

«Quando ero bambino giocavo spesso nell'ufficio di mio padre. Era un luogo che mi piaceva, sapeva del buon vecchio profumo di libri e mi ricordava una...»
«Biblioteca.» affermammo all'unisono.

Lui si rivolse verso di me accennando un sorriso malinconico.
Abbassai di nuovo gli occhi.

«Piaceva anche a me, ma mio padre non amava che entrassi troppo spesso.» rivelai.
Mi guardò di nuovo, studiandomi. Deglutii.

«Ash io...» cercai di dire per introdurre il discorso.

«Ti perdono.» mi interruppe.

Rimasi senza parole. Lo scrutai per un lungo istante cercando di capire se fosse sincero, se non fosse malato o se addirittura non fosse posseduto. Era sincero, i suoi occhi non si spostarono da me.

E avrei dovuto fare i salti di gioia nel sapere una cosa del genere, eppure sentivo che c'era una falla. Non poteva essere tutto così bello, non lo è mai.

Unconditionally mine || Saga HarrisonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora