19-...'Cause all Demons are at this party!

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Capitolo Diciannove:



Tyler

La mia vita è andata storta fin dalla mia nascita.

Sono nato di venerdì 17.

Era una giornata piovosa di novembre.

Pioveva così tanto che, quando a mia madre si sono rotte le acque, l'ambulanza era rimasta intrappolata nel traffico.

E io sono nato dentro casa, precisamente nel salotto, mentre mia madre strillava sul divano, perché mi rifiutavo di venire al mondo.

Mio padre ha cercato di farmi uscire in tutti i modi, imprecando contro tutti gli dèi esistenti, mentre mia madre gridava, gridava e gridava, ma io proprio non volevo saperne di uscire.

Sapevo già che la vita sarebbe stata una fregatura.

Sono uscito al contrario: cioè, anziché prima la testa, sono sbucati i miei piedi, e forse è per questo che da tutta la mia vita non faccio altro che sentirmi così.

Al contrario.

Dentro di me c'è sempre stato un enorme caos.

Un caos che provavo a far evadere da dentro la mia mente strillando.

Quando ero un marmocchio strillavo e giocavo con le macchinine per tutta casa, le facevo strusciare sulle pareti, strillavo come un indemoniato.

Strillavo perché avevo il caos radicato dentro, una mostruosità che mi si era aggrappata addosso e non voleva andarsene via.

Il mondo mi sembrava un posto non adatto a quelli come me.

Più mi sforzavo di seguire un ordine, più non riuscivo a trovarlo.

Ed ero uno sciocco a credere che potessi fuggire da qualcosa che avevo dentro la testa.

Mia madre non mi sopportava, e mio padre la pregava di trovare un modo per farmi stare zitto, dicendo che altrimenti ci avrebbe picchiati a tutti e due.

Così, mia madre mi dava delle medicine, che secondo lei mi avrebbero fatto bene all'umore, ma che invece mi stordivano e basta.

Mi facevano diventare cupo.

Ancora più cupo di prima.

Sempre più isolato e lontano dalle cose, solo e spaesato, e mi rintanavo nella mia cameretta a giocare con i pupazzetti dei miei supereroi preferiti, ma non stavo giocando davvero.

Ero soggiogato dagli effetti delle sostanze delle medicine che mi dava mia madre.

«Ah, ora non parli più», mi disse mio padre una volta, aprendo la stanza.

Rimase fermo sulla soglia a guardarmi.

Volevo parlare.

Anzi volevo urlare, urlare per tutta casa e sfogarmi.

Ma dentro di me c'erano soltanto urla inghiottite e annullamenti.

C'era un benessere apatico, e incapacità a ribellarsi.

E poi mio padre avanzò verso di me.

Io sentivo solo il rumore dei suoi scarponi polverosi sul pavimento e mi imbambolai a fissarli, come un rincoglionito, mentre la puzza bruciante di alcol mi invadeva le narici.

Mio padre era ubriaco, come ogni volta che entrava nella mia cameretta.

Se ne avessi avute le forze, sarei scappato via, avrei urlato, avrei fatto qualcosa.

CRUELWhere stories live. Discover now