Guerra all'ultimo squat

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Non sono una persona mattiniera. In genere preferisco aprire gli occhi e rotolare giù dal letto dopo le dieci del mattino. E, spoiler, non sono una di quelle ragazze super attive che si fiondano in palestra dopo aver bevuto un caffè e mangiato una banana alle tre del mattino.

Tutto il contrario: semplicemente non mi sveglio presto e non vado in palestra.
Non faccio jogging né nuoto. Pilates? Nemmeno. Yoga? C'ho provato, ma è finita male. Malissimo.
Per me alzarsi alle cinque e allenarsi è più o meno come essere catapultata in un reality show da incubo intitolato "Sopravvivenza senza sonno. Guerra all'ultimo squat".

Ed è più o meno così che mi sento adesso, mentre lotto contro me stessa per finire una serie di trazioni.
Me ne mancano quindici. Quattordici e mezzo, se considero quella che sto facendo proprio ora. Se solo riuscissi a sollevare il mio corpo e portarne a termine una... No, troppo sforzo. Le mie braccia non reggono. Non collaborano proprio. Ma la domanda è: io ho delle braccia? Forse no. Mai avute.

Attorno a me circa quindici agenti si allenano come se si stessero preparando per le Olimpiadi mentre io non riesco davvero a concludere una stupida trazione. Allento la presa dalla sbarra e torno con i piedi per terra, le mani fin troppo indolenzite. Al diavolo! È troppo presto per essere atletici. Vado a fare colazione. Nessuno si accorgerà di me. Sono tutti troppo impegnati a fare una flessione al secondo.

Annuisco con convinzione e mi dirigo con lentezza in direzione dell'uscita. Ho notato un bar davvero carino a pochi metri da qui e immagino di pregustare delle squisite frittelle.
Sento già il gusto di un ottimo cappuccino e sono quasi fuori dalla palestra quando la porta si apre e si para davanti a me proprio lui: il sospetto ladro entrato a casa mia ieri sera. Evan Royden.
Oh, cavolo.

Mi giro di spalle e inizio a correre in cerchio attorno alla palestra, fingendo di essere impegnata in una rigenerante corsetta. Voglio morire. Mi sento un criceto sulla sua ruota.
Espira. Inspira. Espira. Inspira.
Oddio, il capo del dipartimento mi sta fissando. Perché mi guarda? Forse ammira la mia tecnica? O davvero faccio così schifo?

Sembra che stia ridendo di me, come se sapesse che la mia resistenza si ferma a sollevare la fetta di una pizza. Evito di guardarlo ancora. È troppo umiliante.
Assumo una finta espressione coraggiosa, ma la verità è che sto cercando di non svenire a ogni passo. Non mi arrenderò. Non ora, cavolo.
Forza, Althea. Goditi il tuo momento da "atleta dell'anno". Se solo potessi farlo durare più di tre minuti senza crollare al suolo...

«Agente Kelley!», sento una voce. Cosa sta succedendo? C'è un angelo. Un angelo con una bottiglietta di acqua in mano, e sta chiamando proprio me.
Mi fermo e allungo il braccio in direzione della mano angelica, afferro la bottiglia e bevo a grandi sorsi, sbrodolandomi anche il top.

«Grazie», ansimo.
«Chiamo un'ambulanza?», solo adesso riconosco quella voce.
Sgrano gli occhi e drizzo la schiena, abbozzando un saluto cordiale per il mio superiore. Azzardo un'occhiata nella sua direzione e mi pento di averlo fatto quando noto l'espressione seria che ha dipinta sul viso spigoloso.

«Non è necessaria l'ambulanza, signore», provo a mettere in fila due parole di senso compiuto. «Credo». Faccio un sorriso affaticato che non viene per niente ricambiato.
«Vieni con me», si allontana di qualche passo, poi torna a guardarmi. Oh. Devo seguirlo?

Mi affretto a raggiungerlo e rabbrividisco quando si ferma davanti alla brutta sbarra di prima. Non vorrà costringermi a fare le trazioni, spero. Mi preparo psicologicamente a una figuraccia, ma sospiro di sollievo quando raduna tutti gli agenti per presentarmi.

«Vi presento l'agente Althea Darlene Kelley», pronuncia ad alta voce il mio nome per intero e sembra quasi un insulto. «L'hanno spedita qui da noi direttamente da New York. Mi auguro che sappiate accoglierla nel migliore dei modi e che queste "nuove prospettive" non creino più confusione che vantaggi», e mi lancia un'occhiataccia mentre conclude la presentazione più odiosa della storia. I miei nuovi colleghi mi rivolgono dei mezzi sorrisi e accennano qualche saluto di benvenuto, poi tornano alle loro faccende come se non fossi mai esistita.

Bene. È stato peggio di quanto mi aspettassi. Non mi aspettavo di certo una festa di benvenuto, ma non questo. Ricaccio indietro la delusione e provo a dileguarmi anch'io, ma Evan mi blocca afferrandomi per il braccio: «Sappi che il lavoro qui è duro», sibila. «E non c'è spazio per gli errori e la debolezza. Non farmi pentire di aver accettato di accoglierti nel mio team e ricordati che il nostro obiettivo è combattere il crimine, non giocare a fare i detective. Sono stato chiaro?».

Non giocare a fare i detective.
Non giocare a fare i detective.
Mi ha già scoperta? La mia missione è già fallita? Lui sa qualcosa? No. Impossibile.
Deglutisco e fingo di non essere terrorizzata dai suoi modi fin troppo duri: «Tutto chiaro, signor Royden»
«Bene», allenta la presa. «Vediamo cos'hai da offrire, agente Kelley»
«Sì, signore»
«E adesso torna all'allenamento. Non penserai di aver concluso con una finta corsetta di un metro e mezzo. Le tue braccia...»

«Sono deboli, sì», mi pento subito di averlo interrotto. Mi pento ancora di più nel notare il ghigno malefico che gli compare sulle labbra: «Vieni con me», è la seconda volta che lo dice nel giro di pochi minuti.
Poi inizia l'inferno.
Aiuto.

Rieccomi!
Terzo capitolo 🎉
Siamo ancora all'inizio, ma spero che questa storia vi stia già prendendo almeno un po'.
Sto cercando di essere rapida negli aggiornamenti e mi auguro di continuare così 🙌
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Un bacio
Sara

NON SONO UNA SPIAWhere stories live. Discover now