Torna a casa

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Subito dopo la missione mi ritrovo in piedi sul marciapiede davanti all'ingresso principale del centro estetico. Non so nemmeno come io sia arrivata qui.
Tutta la tensione accumulata cede all'improvviso e un dolore acuto s'impossessa della mia tempia. Maledetta emicrania.
Se prima riuscivo a resistere, adesso mi sento dentro il post sbornia peggiore della mia vita. Senza aver bevuto niente, tra l'altro.

Gli occhi iniziano ad offuscarsi e tutto intorno a me diviene distorto. Non ora. Non ora, ti prego.
Ho sempre sofferto di attacchi di emicrania, soprattutto durante periodi di forte stress. Ma questo non è il fottuto momento. Dannazione.
Le sirene delle volanti risuonano nelle mie orecchie, ma sembrano lontane e incomprensibili. I miei colleghi stanno portando via i sospettati e gli invitati della festa mentre io mi sento isolata dentro ad una sorta di nebbia dolorosa.

Le luci lampeggianti, le sirene e le voci che mi circondano si mescolano in un caos che pare intensificare il mio dolore.
Non posso stare male.
Non ora che sono riuscita a portare a termine qualcosa con successo. Devo restare vigile e tenere tutto sotto controllo, ma vorrei solo chiudere gli occhi e trovare un posto tranquillo per riprendermi.
Provo ad appoggiarmi al muro dietro di me, ma perfino il mio equilibrio inizia a vacillare. Sono a un passo dal cadere quando delle mani forti mi afferrano i fianchi: «Non è il momento di svenire, agente Kelley». Ancora lui. Evan Royden.

Mi aiuta con delicatezza a sedermi sul marciapiede e si inginocchia accanto a me, stringendomi il viso tra i palmi per instaurare un contatto visivo. Non siamo mai stati così vicini prima d'ora. I suoi occhi sembrano perfino più bui.
«Stai bene? Che succede?»
«Emicrania, signore», biascico. «La scarica di adrenalina e l'ansia non mi hanno fatto molto bene».
Annuisce lievemente, poi blocca l'agente più vicino a noi: «Porta dell'acqua e una coperta».
L'acqua arriva rapidamente e anche la coperta. È Evan a sistemarla sulle mie spalle per poi tornare a inginocchiarsi davanti a me. È così imbarazzante.

Mi porge la bottiglietta d'acqua e vorrei morire quando mi aiuta a sorseggiare lentamente. Sono sopraffatta dal suo profumo, dal suo calore e dalla sua vicinanza.
Non c'era bisogno della coperta. Fa già abbastanza caldo.
«Bevi con calma», mormora. «Non c'è fretta»
«Grazie», riesco a sussurrare. «Può andare, signore. Io... Credo di riuscire a raggiungervi tra due minuti».

Lui non sembra intenzionato a muoversi, anzi. Si siede sul marciapiede accanto a me e continua a studiarmi come farebbe un medico con un paziente. Di tanto in tanto controlla anche ciò che sta avvenendo attorno a noi. Ha tutto sotto controllo.
Non si lascia sfuggire niente. Nessun movimento.
«Hai mangiato qualcosa oggi?».
Chiudo gli occhi e mi massaggio le tempie: «Certamente, signore»
«E cosa, di preciso?»
«Io... Uhm, sì, un toast. Credo».
Sospira e scuote la testa, poi si alza e la mia testa pulsa più forte quando cerco di seguirlo con lo sguardo.

«Non muoverti», dice. «Ti porto qualcosa da mangiare. Sei allergica a qualcosa?»
«Non è necessario, signore. Io sto già meglio, signore». Sappiamo entrambi che sto mentendo.
«Allergie?», insiste.
«Nessuna».
Annuisce e muove un passo indietro, poi torna a minacciarmi: «Resta qui e non svenire»
«Farò del mio meglio per trovare eventuali soluzioni alternative».

Accenna una risata e assottiglio gli occhi per non farmi sfuggire questo istante. È la cosa più bella che io abbia mai visto e sentito. Lui sorride ed io mi sento persa. 
Male.
Malissimo.
Questo non è un buon segno.
Ignoro la tensione nello stomaco e poggio la schiena contro il muro, gli occhi chiusi. Ogni suono e movimento che mi circonda sembra rallentato e mi pare di fluttuare in uno stato di semi incoscienza. Non avevo un attacco di emicrania così forte dal mio primissimo giorno di lavoro. Anche lì ero terrorizzata e piena di tensione.

La nausea mi attanaglia, rendendo difficile anche l'idea di alzarmi. Adesso che Evan è andato via sento dei brividi di freddo sulle braccia e mi stringo di più nella coperta. Voglio dormire.
Voglio andare a casa.
Voglio tornare a New York.
In situazioni come questa mia nonna avrebbe già preparato  un brodo rigenerante da mangiare controvoglia e mi avrebbe costretta a stare a letto. Mi manca tanto.
Dopo la morte dei miei genitori è stata lei madre e padre al tempo stesso. Dolce e severa.

«Agente Kelley», qualcosa mi tocca la spalla e sussulto. Trovo Evan chino su di me, l'espressione seria e quasi dispiaciuta.
Ha in mano un sacchetto di carta dal quale proviene un odore delizioso. «Ti faccio accompagnare a casa», sentenzia.
«Gli interrogatori, il rapporto...», non so nemmeno cosa accidenti io stia blaterando.

Evan afferra le mie mani e mi aiuta a rialzarmi. Mi piace sentire le sue mani contro le mie.
La situazione peggiora quando mi stringe contro il suo fianco, avvolgendomi come un caldo piumone. Immagino di avere la faccia rossa come un pomodoro. Sto camminando abbracciata ad Evan Royden, gente. È talmente alto che la mia testa arriva a malapena all'altezza del suo petto.

Questa mattina mi sbraitava addosso e adesso mi regge in piedi come se fossi una bambina da accudire.
Provo ad allontanarmi, ma lui mi stringe più forte: «Emicrania e stomaco vuoto non sono la combo ideale per una missione rischiosa, agente Kelley», cammina verso Colin che è fermo accanto ad una ambulanza. Sta parlando con delle ragazze mentre prende appunti, l'espressione concentrata.

Ha la carnagione chiara, i capelli corti e castani sempre ben pettinati. Credo di non averlo mai visto con un capello fuori posto. A donare un tocco di serietà al suo aspetto si aggiungono degli occhiali dalla montatura sottile che si incastrano perfettamente con i suoi occhi marrone scuro.
Quando io ed Evan ci fermiamo accanto a lui la sua espressione cambia. Gli occhi si allargano di sorpresa e confusione quando si rende conto della scena a cui sta assistendo.

«Accompagna l'agente Kelley a casa», ordina Evan mentre gli porge il sacchetto con il mio cibo. «Non sta bene»
«Sì, signore».
Avverto la delusione farsi spazio dentro di me. Volevo essere accompagnata da Evan? Sì. Presumo di sì.
Perché? Non ne ho idea.
In circostanze normali avrei voluto essere accompagnata a casa da lui per far prendere alla serata una piega diversa, ma in questo caso? Non servirebbe a niente.

Colin mi afferra per il braccio e mi sostiene, la presa debole e quasi inesistente rispetto a quella di Evan.
È lui a spiegargli in modo dettagliato l'indirizzo di casa mia. Che era sua.
Poi si rivolge direttamente a me, il tono autoritario e severo: «Mangia, prendi un'aspirina e dormi»
«Io posso venire in centrale con voi», continuo a recitare. Rischierei di addormentarmi sulla scrivania, lo so.
«Torna a casa», la sua voce si ammorbidisce.
«Va bene, signore. Mi scuso per il disagio, signore».

Non mi risponde, sussurra qualcosa all'orecchio di Colin e poi mi saluta scompigliandomi i capelli.
Questo tenero gesto mi appicca un incendio dentro il corpo.
Per tutti i criminali del pianeta. Non mi starò prendendo una cotta, vero?

Buon pomeriggio! 🫶❤️
Come state? Eccomi tornata con un nuovo capitolo. La nostra agente Kelley ha scaricato male la tensione 😂😂
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
Aspetto i pareri sul nostro caro capo del dipartimento 😍
Inizia a sciogliersi? Chi lo sa 🧐
Sappiamo solo che Althea sta cadendo nella sua rete 🤦🏻‍♀️😂
Aspetto i vostri commenti.
Un bacio grande

NON SONO UNA SPIADove le storie prendono vita. Scoprilo ora