12. Rette parallele

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L'appartamento era come sempre freddo, dalle tende spesse non filtravano i raggi del sole e il bianco opaco delle lampade non aiutava.
Solo nella mia stanza la luce era gialla, calda. Magari era dato da questo il fatto che desiderassi passare buona parte del mio tempo lì piuttosto che nel resto della casa. O forse era solo una scusa banale.
In quel paio d'ore caddi per l'ennesima volta in un vortice di tristezza, per via della situazione che in famiglia stava collassando velocemente.
Questi pensieri allontanarono la mia testa dal bigliettino per circa tutto il giorno. C'era però qualcosa di strano, in quel pezzo di carta.

Probabilmente era perché non vi erano insulti, ma un ammonimento, quasi un consiglio.
Una minaccia scritta con i guanti.
Questa espressione, delicata ma ombrosa, mi fece subito pensare ad Adele. La ragazza dalla cicatrice che, forse, non si era mai chiusa del tutto.
In quel momento montò in me un intenso astio verso di lei, più forte di tutte le altre volte.
Faceva pesare caro il fatto che avesse quella cicatrice, che sarebbe stata marchiata per sempre, ma tutti hanno le loro ferite, visibili o meno. E, nonostante il proprio dolore, c'è chi sa rialzarsi. Credo che Adele non ne sia mai stata capace.

Lei viveva con le sue difficoltà, mai aveva cercato di superarle. Non credeva che anch'io mi sentissi triste quando qualcuno andava a toccare i miei punti deboli, quelli che mi facevano male. Lei poteva, gli altri no. Nemmeno quando nei loro gesti non vi era malignità.
Voleva rovinare la vita agli altri credendo che ormai la sua fosse arrivata sul fondo, ma non era così. Il problema era che nessuno sapeva come dirlo a lei.

E chissà, forse la stessa cosa stava accadendo ai miei genitori: il rapporto era a livelli infimi, ma si poteva ancora sollevare. Ma, anche in questo caso, come farlo comprendere?
Mi servivano motivazioni serie, qualcosa che facesse vacillare mamma e papà delle loro idee anche usando poche parole. Quando avevo appena cominciato a cercare delle idee, sentii la porta di casa sbattere.
Mi rizzai sulla sedia della mia scrivania, dove ero china a fare i compiti. Nessuno sarebbe dovuto rientrare così presto, mancavano circa due ore al ritorno abituale dei miei genitori.
Aprii uno spiraglio della porta, mormorando uno sciocco: — Chi è?
— Sono io, Caterina.
Papà? Che cosa stava facendo a casa?

Uscii dalla stanza e mi diressi in corridoio, da dove era venuta la voce.
Mio padre aveva appoggiato la giacca e la borsa sul divano di pelle rossa, e ora si stava togliendo la cravatta.
— Perché sei qui? È successo qualcosa? — chiesi immediatamente, senza capire il suo comportamento.
Lui alzò le spalle: — Nulla di che. Sempre i soliti impegni.
Alzai un sopracciglio: — Per i soliti impegni torni alle sette.
— Ho una cena di lavoro — disse in tono sbrigativo. — Mi cambio e ritorno in azienda. Dillo a tua madre.
Credo di aver sgranato gli occhi di fronte a quella richiesta. Come potevo dire a mia madre che papà quella sera sarebbe stato assente?

Mi scostai di lato, mentre lui mi passava accanto verso la camera.
—Papà — dissi, prendendo coraggio. — Dobbiamo parlare.
Lui mi lanciò uni sguardo critico: —Ora, come puoi ben vedere, non posso. Mi dirai tutto domani. Va bene?
—In realtà... —cercai di continuare, ma papà era ormai pronto, si era già cambiato la camicia, e mi mise a tacere con un cenno della mano: — Domani, Caterina. È così difficile da capire?
Rimasi appoggiata allo stipite della porta fino a che non si allacciò la cintura, sperando che cambiasse idea.
Non lo fece.
— Ciao, Caterina — mi disse chiudendosi la porta alle spalle. Solo quelle due parole, nulla di più.

Ritornai in camera e mi sedetti sulla sedia, cercando di riordinare gli ultimi eventi.
Sul serio papà non si accorgeva di quello che stava facendo alla nostra famiglia? Del fatto che si stava comportando nel modo peggiore possibile?
Appoggiai i gomiti sul tavolo di legno chiaro, tenendo la testa sui palmi delle mani. Sospirai a pieni polmoni.
Tornare a studiare mi sembrava impossibile, ero come bloccata.
Rimasi in quella posizione per una decina di minuti; i buoni propositi che avevo avuto fino a poco prima sembravano essere svaniti. Credevo che ormai la situazione non sarebbe più potuta migliorare.
Poi, pian piano, ripresi a scrivere sul libro, completando gli esercizi.
Sembravo un automa.

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