29. L'ultimo danno

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Emma Emma Emma.
Il suo nome mi rimbombava in testa regolarmente. Piano, forte, piano.
La ragazza che mi era stata vicina, che mi aveva abbracciata, sorretta. Colei che un po' mi aveva salvato dalla caduta forse era stata la prima a spingermi nel dirupo.
Non ci potevo credere. Era una visione talmente distorta della realtà da sembrare quasi surreale.
Come avevo potuto essere così cieca da non vedere, così sorda da non sentire? Io avrei potuto aiutare entrambe.

Nonostante quello che avevo appena realizzato, però, io non riuscivo a odiarla.
Aveva preso le redini della mia vita senza permesso, mi aveva manipolata a suo piacere, ma non sentivo rancore.
Solo, per l'ennesima volta, un immenso vuoto.
Mi sentivo tradita, tradita e usata. Perché non mi aveva semplicemente parlato? Aveva lanciato solo impliciti messaggi che, sin da subito, era chiaro io non fossi in grado di percepire.
Lei mi aveva chiamata amica, di Emma avevo sempre creduto di potermi fidare. E avevo preso un abbaglio, come sempre nella mia vita avevo creduto nelle persone sbagliate.

Credevo che la certezza che mi aveva colta poco prima si sarebbe pian piano trasformata in una moltitudine di dubbi, ma non fu così. Ancora una volta ogni dettagli mi portava verso la colpevolezza di Emma.
Non so perché il quel momento avessi così poca fiducia in lei, forse in realtà non mi ero mai fidata davvero.
Come lei non era mai stata davvero mia amica, in fondo nemmeno io lo ero stata.
Davide, dopo che io gli avevo fatto quella rivelazione, aveva continuato a dire che mi stavo sbagliando, che Emma non avrebbe mai fatto una cosa simile.
Quanto avrei voluto credergli, punirmi per aver fatto quei pensieri surreali.
Ma ormai l'incantesimo si era rotto, io mi ero rotta, e potevo vedere finalmente la realtà. Quella orribile e dolorosa realtà.

Era passato un giorno da quando avevo cominciato a credere Emma responsabile dei miei nove danni, un giorno da quando avevo saputo che Adele era stata sospesa.
La sospensione sarebbe durata tre giorni ma, poiché vi era di mezzo la domenica, non l'avrei più rivista fino al martedì successivo. Alla fine era stata ritenuta da tutti colpevole, le prove che io, e probabilmente anche i miei compagni di classe, avevamo portato erano state convincenti e, soprattutto, non avevano lasciato ombra di dubbio.
Non sapevo come sarebbe stato rivederla dopo quel breve periodo, averci a che fare tutti i giorni, nonché osservare gli altri compagni e i professori con sia me che lei presenti.

Carola e Francesca non mi avevano parlato dal giorno della sospensione di Adele e cercavano di incrociare il mio sguardo il meno possibile. Lo stesso valeva per Stefano: non mi aveva più cercata, nemmeno per chiedermi come stessi o per convincermi per l'ennesima volta dell'innocenza di Adele.
Non so come mi avrebbe giudicata se avesse avuto la notizia della colpevolezza di Emma. Si sarebbe arrabbiato ancora di più con me e sarebbe stato più vicino ad Adele, o forse alla fine avrebbe capito che seguivo le prove che avevo, senza guardare a chi portassero.
Il comportamento di Stefano, però, mi aveva talmente deluso che non cercavo più nemmeno delle vie per riappacificarmi con lui.
Il momento peggiore, tuttavia, era stato quello in cui avevo parlato con mio padre.

Il suo carattere, sempre così diretto e freddo, fu messo alla prova con questioni così delicate e psicologiche: potete immaginare che non tutto andò come avrebbe dovuto essere.
— Avresti potuto reagire. O pagarla con la stessa moneta! — esclamò non appena ebbi finito di raccontargli tutta la storia.
Il suo sguardo incredulo si spostava da me a mia madre, che ci guardava appoggiata al bancone della cucina. Mamma era stata la prima a invogliarmi a raccontare tutto da sola a mio padre, con i miei tempi e le mie riflessioni; lei era rimasta lì a darmi manforte e per intervenire nel caso in cui ce ne fosse stato bisogno.

— Non credo che tu abbia il minimo diritto di rinfacciarmi cosa avrei dovuto fare.
Parlai piano, con un filo di voce. Già mi era difficile dirgli tutto ciò, non avevo certo bisogno dei suoi stupidi consigli.
Lui sembrò ignorare le mie parole: — Sono tuo padre. Le tue faccende riguardano anche me.
— Sul serio? — sbottai incredula. — Anche quando mi ignoravi spudoratamente i miei problemi erano i tuoi?
Lui annuì: — È stato un periodo molto difficile. Per tutti. Ora, però, voglio aiutarti, aiutarvi.
Per qualche secondo rimanemmo in silenzio, nessuno sapeva cosa dire.

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