3. Punto non allineato

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Non mi sono mai piaciute le canzoni malinconiche. Forse perché mi descrivono troppo bene e credo che a nessuno piaccia sentire parlare di sé senza freni, ascoltando la sola e pura verità.
Sentirsi sbattere in faccia una propria descrizione e rendersi conto di quanto siamo lontani da ciò che vorremmo essere fa male. Per quanto si possa essere indifferenti.
Ecco, io avevo basato la mia breve esistenza sull'indifferenza. Verso gli altri, verso la vita. Pensavo che le sofferenze avrebbero perso senso e importanza, se non le avessi viste.
Ovviamente non era così. Avevo imposto una regola che non era mai stata valida nemmeno per me.
Sono strane le regole, vero? Sembra quasi che la maggior parte delle volte vengano create solo per poterle infrangere in seguito. Qualcuno ci perde, qualcuno no. È la legge del più forte che, a dispetto di tutte le altre, ha sempre un valore.

Mi ero ripromessa, dopo il pomeriggio con Emma, di cercare per l'ennesima volta di eliminare le tristezze e le difficoltà semplicemente non prestando loro attenzione. Volevo davvero che lei si rivelasse una vera amica. Mi sentivo ridicola a rincorrere quei sogni da bambina, eppure era così.
E anche oggi, mentre scrivo queste parole, non posso smentire con qualche scusa ciò che sentivo. Volevo una persona con cui passare il tempo e mi si era presentata davanti senza nemmeno cercarla. O, forse, le mie speranze erano talmente utopiche che non le percepivo nemmeno più.
Si tende sempre a cercare la via più facile, a percorrere la strada più corta. Feci così anch'io, senza mezzi termini; Emma era arrivata? Allora Emma sarebbe diventata mia amica. Anche lei era sola e senza conoscenti... uguale a me. O forse ero io a volerlo disperatamente credere.
Ma fidarsi degli altri, per me, non era affatto facile.

Questa mia diffidenza era cominciata con un episodio accaduto qualche anno prima dell'arrivo di Emma, quando avevo appena iniziato a frequentare la prima superiore. In quel periodo la mia ingenuità era più evidente e genuina, ma ancora speranzosa sugli altri. Ma non sareste stati anche voi felici verso il futuro, cominciando una nuova scuola, con nuovi compagni e nuovi traguardi? Esagerando, ma senza però uscire dai limiti del credibile, quella per me sarebbe stata come una nuova vita.
E lo fu, su questo non ho ombra di dubbio.

Nelle prime tre settimane di scuola circa, avevo fatto la conoscenza di moltissimi ragazzi mai visti. In particolar modo, avevo stretto una prima amicizia con le compagne della mia classe. Tra di loro, era vivida nella mia mente l'immagine di Adele, già appariscente e con l'obiettivo di farsi ricordare, cicatrice o meno, e di Carola, sua migliore amica.
Queste due ragazze si erano rivelate con me gentili e simpatiche, quasi da convincermi di aver appena cominciato un entusiasmante periodo della mia vita. Passavo parecchio tempo anche con le altre compagne, dialogavamo apertamente e in modo spontaneo, e ciò mi fece credere che finalmente qualcosa stesse cambiando.
Un giorno, però, tutto finì. Non ho mai saputo se fosse stato totalmente a causa mia oppure se fosse già nato nelle menti delle mie compagne il pensiero che io non fossi più degna della loro considerazione. Perché credo che, se davvero un rapporto è sincero, non si possa mai chiudere di netto.

Una mattina, Francesca, la ragazza che mi sedeva accanto in quei primi tempi, aveva proposto al gruppo di andare a fare compere il giorno seguente.
Io avevo acconsentito, sapendo già che i miei genitori non mi avrebbero proibito un'uscita con le amiche poiché avevo appena preso un buon voto in latino. E infatti non mi avevano negato il permesso, ma anzi mi avevano dato qualche soldo in più per comprare ciò che desideravo.

Così io, Francesca, Adele, Carola e altre due ragazze ci eravamo trovate il pomeriggio successivo in città.
Eravamo entrate in qualche negozio senza trattenerci molto, più impegnate a divertirci e a parlare che a osservare la merce. A un certo punto, però, Carola aveva voluto provare un vestito, e così noi altre eravamo rimaste fuori dal suo camerino ad aspettarla. L'abito era rosa, con una gonna di tulle ampia che arrivava fino al ginocchio. Non mi convinceva, semplicemente non assecondava i miei gusti.
Quando era uscita, avevo la mia opinione: era troppo stravagante quell'abito, anche per una ragazza "audace" come lei.

— Cosa ne pensate? — aveva chiesto, guardandosi invece soddisfatta allo specchio.
Adele le aveva sorriso: — Sei fantastica, Carola! Stai davvero bene.
E da quel momento avevo cominciato a credere che fosse falsa. Anzi, ne avevo avuto la conferma senza dubitarci minimamente, ma ero ancora troppo buona per convincermene da subito.
Lo stesso avevo dedotto delle altre, quando avevano annuito compiaciute al commento di Adele.
No, non credo che l'abbiano assecondata solo per amicizia, quella non lo era: un'amica ha il coraggio di dirti se il vestito che hai addosso ti rende più simile a una bomboniera che a una modella.

— E tu, Caterina? Che ne dici? — mi aveva chiesto però Carola, quando ormai avevo deciso di non esporre il mio parere. Sarebbe stato così semplice, non è vero? Risolvere tutto con un sorriso timido, non dire una parola. Non mi fu permessa questa fortuna.
Avevo abbassato repentinamente lo sguardo: — Io... Io credo... Io credo che non ti stia bene. Non per te, ma ti fa i fianchi troppo grossi ed è davvero corto.
Avevo parlato. Ero stata sincera. E avevo appena decretato la mia esclusione dalla classe per gli anni a venire.
Carola mi aveva guardata di sbieco, dai suoi occhi non riuscivo a capire quello che pensava: — Come? Sul serio, non ti piaccio?
Le altre erano stupite, mi guardavano come se fossi stata una tradritrice.

— No, non volevo dire questo — ma in realtà era proprio quello che pensavo. — Solo che non fa per te. Non credo sia il tuo genere.
Più parlavo, più peggioravo la situazione. Ma ormai la diga si era rotta e la verità rifiutava di farmi dire solo menzogne.
— Provalo tu, Caterina, magari ti accorgerai di quanto è bello — aveva proposto Adele con un tono provocatorio.
La cicatrice, in quei secondi, mi era apparsa grande, come se occupasse tutto il lato del suo viso. Vedevo solo quella, Adele era la cicatrice stessa.
E lì avevo capito che il mio torto non era stato tanto contro Carola, ma contro Adele. Era lei quella che aveva più a cuore l'aspetto estetico, l'apprezzare i difetti. E il farli apprezzare agli altri.
Lei non capì che la sua situazione e quella di Carola erano differenti.

Le altre, intanto, sorridevano.
— Ma a me non piace, non lo comprerei comunque — ancora una volta stavo sprofondando sempre di più verso il fondo.
Lei si era allungata verso lo scaffale e aveva preso un altro vestito: — Fallo per noi, Caterina.
Senza né coraggio né modo di obiettare, ero entrata nel camerino accanto a quello di Carola.
Il primo pensiero che mi saltò in mente mentre mi toglievo i pantaloni era stato "voglio andare via". E lì aveva capito che quello che mi avevano chiesto non era un qualcosa di buono.
A malincuore, avevo continuato a spogliarmi e mi ero infilata il vestito. Avevo appena messo piede fuori dal camerino, che una delle ragazze ridacchiò.

— Forse hai ragione, Caterina — aveva mormorato piano Adele. — A te, fa i fianchi troppo grossi, e per te è davvero corto. Non per Carola. Hai pensato solo a te, mentre la guardavi? Forse non sei quella che credevo tu fossi... Pensi che io debba mettere una maschera perché a te non piace la cicatrice?
Rimasi basita: era la prima volta che la sentivo parlare così apertamente di se stessa, fino a quel momento aveva sempre nascosto la cicatrice come se fosse un marchio. E, dallo sguardo stupito delle altre, probabilmente era la prima volta anche per loro.

Adele mi apparve totalmente dipendente dal parere degli altri, dalla loro opinione.
Avevo scosso la testa, ma lei mi avevo ignorato: — Forza Carola, compralo.
Lei, compiaciuta, aveva annuito e si era subito ricambiata, mentre io, chiudendomi la tendina del camerino alle spalle, ero decisa a non uscire più da lì.
Guardandomi allo specchio, non avevo saputo più dire niente riguardo al vestito. Per come mi avevano trattato, come fosse in realtà l'abito era il meno.
Durante il resto del pomeriggio ero rimasta zitta, a guardare loro mentre ridevano e si divertivano.
Adele non mi aveva più rivolto la parola, solo qualche occhiata sprezzante.
Dal giorno dopo aveva smesso di parlarmi e, pian piano, lo avevano fatto tutte le altre ragazze.
Da lì, Caterina era diventata un fantasma. Un patetico, insulso fantasma trasparente.

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