6. Teorema

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Forse sarà meglio spiegare che non sono qui per parlarvi di feste, di vestiti e di ragazzi. Altrimenti queste parole sarebbero una stupida ripetizione di storie già raccontate.
Quella festa, una delle due a cui partecipai durante tutta la mia adolescenza, non è stata nominata a caso. Per quello che vi può riguardare, fino a qui non è parso come nulla di stravagante e lo accetto. Ma sarà meglio aspettare ancora un po' di tempo, quando anche le parole non dette faranno capolino e ciò che voglio dirvi sarà più chiaro; quando per raccontarvi questi pochi aneddoti mi sarò resa poco più vulnerabile di quanto io non sia già.

La festa, di per sé, fu solo una minima cosa. A dirla tutta, l'avevo trovata anche leggermente noiosa, tanto che mi sentii sollevata quando arrivai a casa e potei finalmente sdraiarmi sul letto.
Rimasi lì ferma, a rimuginare sulla giornata appena passata pensando a ciò che avrei voluto cambiare. Era sempre così, quando mi ritrovavo sola e circondata dal buio: c'era sempre qualcosa che avevo fatto che non andava bene ed era totalmente sbagliato. Parole non dette o, al contrario, frasi pronunciate senza la minima riflessione.

Alla fine sapevo che rifletterci sopra era inutile, non potevo modificare il passato, ma allora cominciavo a pensare al futuro e, in quei casi, era anche peggio, sogni e ideali che il giorno dopo qualcuno avrebbe pian piano demolito, rovinando in me come una valanga.
Così non pensavo più a nulla, mi perdevo nel rumore del traffico lungo le strade della città e sognavo di potermene finalmente andare via da lì, andare via da tutto. Rimanere solo un ricordo lontano.
Avevo ancora speranza che, da qualche parte, io sarei stata accettata.

La mattina seguente, però, quando mi svegliai, avevo negli occhi una luce viva.
Era la voglia di ricominciare, di correggere tutti gli errori non per poterne creare di nuovi, ma per non sbagliare più.
Anche i miei genitori notarono questo mio repentino cambio d'umore; o meglio, mia madre.
— Che ti succede, Caterina? Oggi sei allegra — mi chiese, mentre roteava il cucchiaino nella tazzina bianca con un movimento nervoso. Indossava già il tailleur nero che, come tutti gli altri, non vestiva bene sul suo corpo troppo magro.
Allegra. Diversa.

Il modo in cui lo disse, però sembrò quasi che avessi commesso un crimine. Che fossi malata.
Scossi la testa: — Nulla di particolare... Ho passato solo una bella serata.
Papà non sembrava compiaciuto del fatto che almeno una volta nella mia vita avessi fatto quello per cui optavano i miei coetanei, ma non disse nulla. Continuò a sorseggiare il suo tè, che occasionalmente gli andava a bagnare i baffi grigi. Non appena accadeva, subito si ripuliva con il tovagliolo.
Anche lui era già vestito per la giornata, con una camicia azzurra e un maglione di lana nero. Era più tozzo rispetto a mia madre, più paffuto, con il capo ormai completamente calvo.

Mamma invece, con i capelli biondi raccolti nella solita coda di cavallo senza un ricciolo fuori posto, sembrava approvare l'idea: — Ne sono davvero felice. Hai il permesso per farlo anche altre volte.
— Da parte mia, però, no — ribatté mio padre, allungando lo sguardo sul quotidiano che teneva accanto al piatto.
Questa volta non sapevo chi avesse ragione: sembrava che mia madre volesse cogliere ogni occasione per farmi stare fuori casa. Dubitai che fosse un gesto gentile... Non era da lei.

— Non devi spronarla verso certe attività, Laura — continuò mio padre, scuotendo la testa. — Non può certo esagerare.
Non alzò nemmeno gli occhi dal giornale, voltava le pagine con un'aria distratta.
— Non ritorniamo su questo discorso, Diego — mise in chiaro mia madre, il tono della voce infastidito. — Sappiamo già di non essere d'accordo.
Quindi ne avevano parlato? E senza di me?
Lui carezzò con le dita i baffi: — Parliamone apposta, allora.
Mamma alzò gli occhi al cielo: — Si può parlare solo quando vuoi tu? Quando hai un aspetto decente?
A quella frase nessuno si voltò verso di me per vedere la mia reazione. Era come se io non fossi più lì.

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