27. Luce nuova

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Più il tempo passava, più sentivo sulle spalle il peso delle mie azioni. La mole delle conseguenze che ci sarebbero state per me, per Adele e per le nostre famiglie era sempre più stimabile. In cosa sarebbero consistite, però, non mi era dato saperlo.
Eravamo ormai da circa mezz'ora in attesa in presidenza, ed erano già stati chiamati sia i miei genitori che quelli di Adele, anche se nessuno di loro si era fatto vivo.

Il professore non aveva proferito parola nel tragitto fino in presidenza; poi, senza dire molto di più, se ne era andato.
Probabilmente non aveva voluto immischiarsi troppo in quella storia, che ai suoi occhi appariva magari come un inutile lavoro e perdita di tempo. Non potevo che essere del suo stesso desiderio: anche io avrei voluto non saperne più nulla di tutto.
Emma era stata mandata a casa quasi subito, così credevo che Stefano e Davide sapessero già quello che era accaduto. Da una parte era positivo poiché non avrei dovuto dirlo io, ma dall'altra forse il mio comportamento li aveva delusi.

Era orribile stare lì, io e Adele sole, con i nostri respiri a riempire il tempo.
Ad un certo punto, però, lei ruppe il silenzio.
— Sono caduta da un albero. Per puro e semplice gioco. Un bambino mi aveva sfidato a salirci e io l'ho fatto.
— Non serve che tu me lo dica.
Avevo capito quello che stava facendo e sapevo di non voler sentir nulla.
Adele batté il tacco dello stivale sul pavimento: — Invece sì. Devo farti capire che non sono sempre stata così.
— Così come? — chiesi, le parole titubanti di chi non sa cosa aspettarsi.
Lei mi guardò: — Come la cattiva. Perché è così che tutti mi vedete, evidentemente.
— Non hai mai fatto nulla per far credere il contrario — sbottai, capendo che quel discorso non era quello che avrei voluto avere con lei. In realtà, non avrei proprio voluto parlarle.

Adele annuì: — La verità è che non è stato per nulla facile. Avevo solo quattro anni, Caterina. Per me era solo uno sgorbio sulla faccia, nulla di più, io ero sempre la stessa Adele. Ma per gli altri non era così. Già alle elementari mi prendevano in giro, ridevano quando entravo. Nei giochi di gruppo ero sempre io la strega.
Il mio cuore accelerò quando sentii che la voce di Adele era strozzata. Guardandola ben in viso, notai che piccole lacrime le rigavano le guance.

— Comprai la prima minigonna a dodici anni. La misi per una festa al mare, dove più o meno tutti erano vestiti così. E, per la prima volta, un ragazzo non mi rise in faccia ma mi chiese di ballare. Credetti di aver risolto tutti i miei problemi, invece la mattina dopo lo sentii mentre diceva ai suoi amici di aver ballato con la sfregiata. Mi chiamò proprio così.
Ogni parola la faceva piangere sempre di più. E io sentivo dentro di me sentimenti troppo tristi per poterli definire.
— Quel ragazzo non aveva visto nulla di buono. Era stato attratto dalla gonna, non da me stessa. E, alla fine, mi aveva solo usata.
Adele rivolse in quel momento un mesto sorriso al pavimento, dal quale non staccava gli occhi nemmeno per un secondo: — Da lì mi resi conto che, per far staccare gli occhi degli altri da questa — indicò con un gesto rabbioso la cicatrice. — Dovevo cambiare me stessa. Ogni singola parte di me era condizionata dalla cicatrice e io non volevo fosse così.

— Da quel momento ho deciso di comprare i trucchi e non puoi immaginare, Caterina, la prima volta in cui mia madre mi ha vista con una maglietta lunga fino all'ombelico. Eppure io ho continuato, convinta che se solo avessi valorizzato meglio il resto del mio corpo, forse nessun ragazzo avrebbe fatto commenti su di me il giorno dopo, si sarebbe solo limitato a ballare.
Mi guardò con la resta inclinata.
— Ed è stato così. Non c'è ragazzo che non mi guardi. Ma sai, non è bello. Ha tolto una parte della sofferenza, ma ha reso solo il tutto sopportabile. So perfettamente che mi stanno attorno solo per i pantaloni aderenti e la maglia scollata. E che guardano anche la cicatrice.

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