11. Lividi

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Io, Catherine Jane Richardson, non sono mai stata molto brava ad ascoltare e seguire i consigli altrui, generalmente preferisco darli: è nella mia indole. Molte volte non riesco a vedere le cose dall'esterno e con lucidità, per cui, pur chiedendo consigli e suggerimenti agli altri, faccio comunque di testa mia. Mia madre mi ha sempre rimproverato per questa mia incapacità di dare ascolto agli altri, papà invece mi incoraggiava sostenendo che fosse giusto che io facessi ciò che desidero, ciò che il mio cervello sembra stimare sia la cosa migliore.

Al momento, però, penso che la decisione migliore che io possa prendere è quella di seguire il consiglio di Nicholas: fare finta di niente e tutto andrà per il meglio.
Mi piego sulle ginocchia per recuperare la tessera e approfitto del momento i cui ciocche di capelli si posano sul mio viso per fare un respiro profondo e cercare di mascherare tutte le emozioni che il mio volto vorrebbe far trapelare in questo istante. Non piangere, Catherine, non devi piangere o davvero ci sarà da farlo.

Uno...due...tre.
Conto per incoraggiarmi e poi, tirandomi su, indosso il mio sorriso migliore e vado in scena.
<<Oh...Paul!>> lui è sempre più vicino e io devo sforzarmi sempre di più per non lasciar trasparire il terrore che la sua vicinanza scatena in me.
<<Sei sparita, prima>> mi dice lui una volta difronte a me <<Quando sono tornato non ti ho più trovato e->>

Non gli do l'opportunità di concludere la frase perché lo interrompo prima che lo faccia. <<Hai ragione, mi dispiace>> cerco di rendere la mia voce più convincente possibile e spero con tutta me stessa di starci riuscendo. Accidenti! Qual era la scusa? Ah sì, la scusa, Cole. <<Mi ha chiamato Cole e mi ha chiesto di raggiungerlo immediatamente>>

<<Cole?>> domanda lui pensieroso con le sopracciglia leggermente aggrottate.
<<Esatto>> comincio a gesticolare in maniera smisurata <<Il ragazzo che ti ho presentato ieri, alto, carino, occhi scuri, capelli neri>> mimo la sua altezza a circa venti centimetri più in alto di me.
<<Cole... certo, mi ricordo di lui>> finalmente lui sembra comprendere di chi stia parlando e subito si mostra interessato. Okay, Catherine, ce la stai facendo. L'importante è continuare a mantenere la calma.

<<Come mai?>>
<<Cosa?>>
<<Come mai ti ha chiamato>> spiega lui e mi trattengo da schiaffeggiarmi la faccia con la mano. Violentemente anche.
Mi chiedo: ma si può essere così stupidi? <<Oh, certo... Che altro se no?>> sforzo una risatina.
<<Mi ha chiamato perché...>> guardo il soffitto nella vana speranza di trovarci scritta una scusa plausibile, eppure non accade e tentenno <<Perché... PERCHÉ STAVA MALE!>> il colpo di genio mi porta ad urlare il finale e ci metto qualche secondo prima di tornare al mio volume abituale. Ricomponiti, Catherine, sembri pazza.
<<Dicevo>> mi schiarisco la voce prima di continuare a parlare. <<Sta molto male, malissimo. Ieri dopo il cinema ha deciso, di nascosto da me, di andare in discoteca e ha bevuto tantissimo, troppo. Era uno straccio quando mi ha aperto la porta e poi si è accasciato sul pavimento in una valle di conati>> rido poggiandomi alla porta della mia stanza. <<Adesso fortunatamente ha buttato tutto fuori ed è nella sua stanza a riposare per riprendere le energie>> sorrido e anche lui fa lo stesso.
Ora se ne va? Qualcuno mi dica che adesso se ne va.

<<Di un po' Catherine>> del sorriso non c'è più traccia, il suo volto non cela alcuna emozione e la voce è fredda e piatta. Qualcosa mi dice che dovrei avere paura e deglutisco nervosamente mentre lui scruta attentamente il mio volto.
Non farti film mentali, Catherine, è tutto apposto. Va tutto bene.
Va tutto be-

<<Pensi che io sia un idiota?>> sputa velenoso e prima che e io me ne renda conto mi afferra dagli avambracci con una presa solida. Nel giro di pochi secondi sento la mia schiena urtare violentemente con qualcosa e capisco che sono bloccata alla parete del corridoio opposta a quella in cui si trova la porta che conduce alla mia stanza.
Corrugo le sopracciglia a causa del forte impatto e mi mordo il labbro inferiore per trattenere un gemito di dolore.
<<Lasciami, mi stai facendo male>> cerco di strattonarlo ma non ci riesco. <<E poi... Si può sapere che ti prende? Lasciami, ho detto>>
<<Non trattarmi come uno stupido... Hai capito?>> sussurra a denti stretti e il suo alito si infrange sul mio volto. La sua testa è sempre più vicina alla mia e cerco di tirarmi più indietro possibile anche se il muro dietro di me me lo impedisce. <<Il tuo amico sta benissimo, è a fare colazione ed è venuto proprio da me a chiedermi se ti avessi vista. Il mio telefono era acceso e sbloccato e tu eri completamente sparita nel nulla. Non provare a trattarmi come uno stupido!>> rinforza la presa e gemo quando la mia testa urta nuovamente alla parete.

Under the same night sky Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora