Capitolo 40: Il piercing

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Il pomeriggio trascorso assieme a Millie non era per niente stato come lo avevo immaginato.
Non per colpa sua, tutt'altro.
Lei era fantastica come sempre, logorroica come pochi e con la battuta costantemente pronta.
Ero stata io quella con la testa altrove, quella che continuava a domandarsi cosa sarebbe successo con Jay se le nostre parti razionali non ci avessero fermati. Insistevo a chiedermi cose a cui preferivo non rispondere.
Non sapevo con certezza cosa mi fosse accaduto, ma ero consapevole dei miei sentimenti nei confronti di Jay.
Il problema era solo uno: esporli.
Non volevo farlo, e poi lui usciva con Victoria.
Credo.
Mi ero tormentata per l'intero pomeriggio, danneggiando anche il mio appuntamento con Millie, solo per pensare a Jay. Riflettevo su quella stessa mattina, su suo padre, su di lui.
Dovevo togliermi il vizio di farmi sempre un sacco di domande.

Giunsi a casa che il cielo si stava trasformando in un enorme pozza arancione, prossimo a lasciare posto alla luna.
Mormorai un 'ciao' quasi impercettibile ai miei genitori e me ne andai in camera mia, dove mi chiusi a chiave.
Mi cambiai velocemente i vestiti, indossandone un paio di più comodi e mi domandai come mai nessuno dei due mi avesse salutato; di solito lo facevano.
Li raggiunsi in salotto.
Erano intenti a parlottare tra di loro, si scambiavano sguardi preoccupati ed occhiatacce fugaci.

«Che succede?» chiesi leggermente intimorita, sedendomi sul bracciolo del divano.

«Keira» mio padre sospirò, alzandosi dal divano. «C'è una nuova notizia»

«Buona o cattiva?»

«Solo...nuova» continuò mia madre, mettendosi anche lei in piedi.

Mi guardarono, leggevo apatia nei loro occhi. Però erano spenti, non trasmettevano nulla se non passività.

«Mark Morris è uscito di prigione, oggi»

E in quel momento sentii, per davvero, qualcosa cadermi sulle spalle.
Qualcosa di pesante, di fastidioso, orticante, massiccio, oppressivo.
Come se un elefante mi fosse salito sulle spalle ed avesse iniziato a saltare con il solo fine di spaccarmi la schiena in due.
Le mie ossa tremavano, i miei occhi bruciavano.
Erano annebbiati.
Sentivo ogni centimetro del mio corpo ricoperto dalla pelle d'oca.
Non avevo la forza di alzarmi e di stare in piedi.
Sentivo i tanti punti di domanda che avevo in testa, urlare.
Urlare forte, a squarciagola.
Mi dirompevano i timpani.
Come se mi stessero strappando i capelli ed avessero iniziato a giocare a calcio con il mio cuore.
Sentivo lo stomaco contorcersi, capovolgersi totalmente.
Avrei vomitato.

«No...» riuscii a dire soltanto.

Poi buio.

***
Mi risvegliai che ero nel mio letto, coperta da un lenzuolo bianco e profumato.
Gli occhi dei miei genitori puntati addosso ed un panno bagnato sulla fronte.

«Come stai, tesoro?» chiese mia madre prendendomi la mano.

Non le avrei mai più permesso di toccarmi in quel modo, ma in quel momento stavo troppo male per controbattere.

Non le risposi, mi limitai a socchiudere gli occhi e ad annuire con poca convinzione.
Papà mi guardava preoccupato, e la sua espressione mi ricordò terribilmente i giorni dopo il mio tentato suicidio.

«Sei svenuta» dissero in coro.

«Mark Morris» mormorai soltanto.

Ancora non potevo crederci.
L'uomo che aveva investito mia sorella, era uscito di prigione.
Avrei potuto incontrarlo al supermercato, nel posto accanto al mio al cinema, dietro gli scaffali di una biblioteca, fuori da un centro commerciale.
Colui che era stato troppo sbronzo per essere solo l'ora di pranzo, colui che per colpa di qualche birra aveva causato la morte di mia sorella, era a piede libero. Poteva starsene tranquillamente nei paraggi.
L'avrei potuto vedere ogni singolo giorno, magari nel suo bar preferito, o nel tabacchino vicino scuola.
Sentivo i battiti cardiaci accellerare sempre di più.
Non ero pronta, per niente.

Sopra lo stesso tetto | #Wattys2019Where stories live. Discover now