Capitolo 48: Uno, due, tre

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Ti odio, ti odio, ti odio.
Ripetevo quelle due stupide parole come se fossero le sei lettere più belle mai dette da qualcuno.
Mi sfioravo le labbra con l'indice e sorridevo come un'ebete.
Stavo appoggiata al muro della mia camera con il cuore capovolto.
Lo stomaco si dilettava nelle capriole, i polmoni si erano ricoperti di fiori profumati, il cuore nuotava nella trachea. I piedi mi si erano sollevati da terra, le braccia si erano costituite di un nuovo strato di pelle d'oca.
La gola era secca, le labbra insaziabili.
Gli occhi lucidi dalla gioia, la lingua diventata una ballerina di classico.
Dal mio ventre sentivo uno zoo ruggire, urlare, gracchiare, cantare, cinguettare.
Altro che farfalle.

Mi accarezzai i fianchi stretti fino a poco prima da Jay.
Erano ancora arrossati a causa della forza e dell'intensità di quel nostro ultimo bacio.
Sentivo le labbra anestetizzate.
Gonfie e rosse.
Però ne volevo ancora.
Non ero mai sazia.
Mi chiesi cosa stesse provando lui in quel momento.

Lui mi odiava, ed io non potevo sentirmi meglio.

Ci eravamo dati appuntamento sul tetto alle dieci e un quarto.
Sarei stata lì.
Senza dubbio.

***
Mi feci una doccia veloce e quando uscii dal bagno, accesi il telefono su cui erano spiaccicate cinque chiamate perse da parte di Millie.
Oltre a lei, un paio di messaggi di Kelsie e Kylie.
E poi, Oliver.

Seguii un ordine, e richiamai prima Millie. Mi rispose dopo due squilli e mi chiese velocemente di uscire con lei il giorno seguente. Accettai, ma non capii il perché di tutta quella sua insistenza.
Qualche minuto di telefonata e poi passai alle mie migliori amiche.
Solite cose: gossip, gossip, gossip.
Lessi e chiusi la chat.
Ne mancava una sola.

Oliver: Ehy Keira, domattina ti va un caffè?

Risposi subito.

Keira: Certo, alle dieci al Tokio?

Due minuti più tardi, mi rispose con un semplice 'va bene'.

Mancava solo mezz'ora all'appuntamento con Jay.
Sapevo che quell'incontro sarebbe stato diverso dai precedenti.
Non riuscivo a smettere di sorridere.
Indossai un paio di pantaloni grigi di una tuta, un top nero che lasciava scoperta parte della mia pancia, ed un cardigan leggero. Non faceva freddo, ma nemmeno caldo.
Eravamo nella stagione intermediaria.
A settembre, ogni giorno era una stagione differente.

Mi sedetti sul mio letto e mi guardai attorno, in cerca di qualcosa da fare.
Gonfiai le guance ed i miei occhi si fermarono sui pochi scatoloni che erano rimasti ancora in camera mia.
Mi alzai ed iniziai a ficcanasarci dentro.
Mi sedetti a terra, con la schiena al muro, ed iniziai a sfogliare vecchi quaderni delle elementari.
Quando la mia calligrafia era irregolare, ma ancora non avevo la testa piena di problemi.
Guardai anche i titoli dei libri che leggevo fino a pochi anni prima, come Orgoglio e Pregiudizio.

A distrarmi da ogni pensiero, successivamente, fu mio padre.
Mi chiamò dal soggiorno, ed io mi alzai per raggiungerlo.
Mi chiese di buttare la spazzatura.
Io? A buttare la spazzatura?

«Te lo scordi» risi incrociando le braccia.

«Andiamo, sei sempre privilegiata in tutto. Fai solo questo piccolo sforzo!» mi ordinò passandomi il grande sacco nero.

«Non uscirò di casa in queste condizioni! Ho anche i capelli umidi»

«Infilati le scarpe e non brontolare. I bidoni si trovano di fronte al condominio. Tra cinque minuti sarai già qui a casa!»

Sbuffai e poi gli strappai il sacco dalle mani.
Infilai velocemente il primo paio di scarpe da ginnastica addocchiato, e scesi a passo svelto le scale.
Salutai in maniera educata un inquilino del secondo piano, ed uscii sbattendo il portone.
Pregai che nessuno mi vedesse.
Attraversai la strada e poi buttai il sacco nella spazzatura puzzolente.
Successivamente, mi pulii le mani sui pantaloni.

Sopra lo stesso tetto | #Wattys2019Tahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon