7. They don't care 'bout stray dogs and cats (1)

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Arco I: Evolution

Capitolo 7: They don't care 'bout stray dogs and cats (1)

- Fine agosto -

"Non ne posso davvero più di questa pioggia..."

Pioveva ininterrottamente da diverse ore ormai, ed il cielo, ancora affollato di nubi tempestose, non sembrava promettere un rasserenamento. Pioggia o non pioggia, Vincent era sicuro che sarebbe andato al Naughty Sunday quella notte, lo sapeva dentro di sé e se lo ripeteva con fermezza, poiché lo voleva davvero.

Di norma non lo avrebbe mai desiderato, benché i suoi desideri lo avessero stupito terribilmente in certe occasioni - come quando aveva deciso di prostituirsi per la prima volta -, ma in quel momento, mentre ascoltava lo scagliarsi furioso dell'acqua contro il vetro ed il calmo e lento battere del proprio cuore, avvertiva la necessità di uscire dalle mura domestiche.

Seduto sul tappeto, con le spalle contro il finestrone, strinse le braccia attorno alle gambe, aggrappandosi disperatamente a se stesso, ed accoccolò il capo tra le ginocchia, in posizione fetale.

Nonostante fosse fine agosto, aveva freddo, così tanto da non riuscire a riscaldarsi neanche con la grande coperta rossa che gli avvolgeva morbidamente il gracile corpo; Vincent non reputava di avere la febbre, anche se avrebbe preferito attribuire la sensazione sgradevole a un malessere piuttosto che a quella sensazione che conosceva bene e che odiava dal profondo: si sentiva solo, orribilmente solo.

Per inciso, in casa era presente anche Jonathan, ma stava al piano di sotto, magari in cucina a racimolare qualche idea per la cena attraverso i vecchi ricettai di loro madre.

Il suo fratellino era sicuramente il suo ultimo pensiero.

E Thomas? Per quanto riguardava lui, pensò il ragazzo con un sorriso amareggiato, era probabile che il figlio minore non rientrasse nemmeno nella lista dei suoi pensieri.

Poi c'era Liza, ma senza dubbio ella aveva per la testa altro, e se le tornava voglia di improvvisarsi madre lo faceva solo per Heaven.

Ironicamente, una persona che forse pensava a lui era Lacey; Vincent la immaginava appoggiata alle grandi ed eleganti vetrate del Naughty Sunday, con i bellissimi occhi rivolti alla tempesta, presa dal dubbio che i suoi dipendenti si presentassero o meno a lavoro quella notte.

Forse anche Marika era troppo persa nei suoi studi per ricordarsi che quella testa montata del suo ex aveva la triste abitudine a lasciarsi lacerare dai pensieri malinconici quando era solo e fuori pioveva.

Con gli occhi appesantiti da un brutto paio di occhiaie, il bruno rivolse uno sguardo intenso al display esterno del suo cellulare, nella speranza di vederlo brillare in quel modo asfissiante che annunciava una chiamata persa; e invece no, nessuno lo aveva cercato, esattamente come si aspettava.

Chi mai avrebbe dovuto cercarlo, dopotutto? Forse solo Fanny, ma sembrava che anche la sua amica d'infanzia avesse di meglio da fare.

D'un tratto, la sua camera da letto gli sembrò ostile, più piccola e buia del normale, ed ogni cosa provvista di occhi, come Liza e Jonathan nelle fotografie poggiate sul comò o i Linkin Park del poster appeso al muro, sembrò puntare su di lui l'attenzione. In tutti i sensi.

Vincent si sentiva osservato, scrutato, studiato, come il protagonista di un film horror.

Il suo respiro si fece pesante, si concentrò sul respirare profondamente e riprendere controllo della propria mente. Era evidentemente un'illusione ottica, quella, data da chissà quale fattore fisico riconducibile alla poca luce nella stanza, oppure era solo il suo cervello che lo avvertiva di doversi prendere una pausa di un paio di giorni dal mondo.

Scosse il capo, lo scosse più volte, fino a quando quelle orribili visioni non sparirono, lasciandolo nuovamente solo.

"Non va bene..." si disse, passandosi una mano sudata tra i capelli scuri; aveva bisogno di uscire da lì, altrimenti sarebbe diventato pazzo. Tuttavia, ancora una volta, i suoi piedi si rifiutavano di muoversi.

"Ho paura di cose che non esistono, che idiota!" tentò di spronarsi ancora, persino accompagnandosi con una piccola risata nervosa, ma neanche questo ebbe il potere di allontanare l'ansia.

Aveva bisogno di lasciare quella tana, capace di costringerlo ad affrontare se stesso ed i conti che aveva in sospeso con la vita, e rifugiarsi tra le braccia di qualcuno. Chiunque andava bene, davvero chiunque.

Nessuno si sarebbe in ogni caso ricordato di lui il giorno dopo, sarebbe stato come se niente fosse mai avvenuto; e se qualcuno gli avesse fatto ricordare lo stato pietoso in cui si trovava in quel momento, lui avrebbe semplicemente scrollato le spalle con nonchalance, ridendo di qualcosa che non poteva essere vera: lui era Vincent Black, e di certo Vincent Black non era uno di quegli smidollati che si spaventavano di una cosa naturale come la solitudine!

Ecco, così era Vincent Black: un vincente; non era il tipo che mostrava le debolezze, anzi, di debolezze non ne aveva proprio! Non dimentichiamoci che lui era Hound, il perfetto Hound.

Poggiò una mano sul letto ordinato, distante pochi centimetri, stringendo tra le dita ossute il morbido e freddo copriletto blu, che utilizzò come supporto per alzarsi; aveva passato troppo tempo seduto, tanto che le ossa delle gambe gli fecero male mentre si rimetteva in piedi. Lasciò che la coperta rossa gli scivolasse dalle spalle, andando a cadere sul pavimento senza far rumore, come la vecchia pelle di un serpente che ha fatto la muta.

Sollevò gli occhi sulla porta, evitando accuratamente di incontrare gli sguardi finti delle foto e dei poster della stanza, quindi si mosse veloce verso il corridoio, col cuore che per qualche misteriosa ragione batteva più veloce del normale.

"Assurdo, è proprio assurdo!" si ripeteva, mentre improvvisava il miglior sorriso spavaldo del suo repertorio. Che senso aveva tutto quello? Lui non aveva affatto paura della solitudine, né aveva tantomeno bisogno della compagnia di qualcuno.

L'unica cosa di cui aveva bisogno era andare a lavorare. Encomiabile e perfetto, giusto?

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