8. Phoenix's little secret (3)

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Arco I: Evolution

Capitolo 8: Phoenix's little secret (3)

Arrivare a casa Morgan fu molto più veloce del previsto. Quando Vincent seppe del contenuto del messaggio arrivato a Marika – un'accorata richiesta di raggiungere casa Morgan il prima possibile da parte di Fanny -, il ragazzo non badò più ai limiti di velocità, dando così l'ennesima prova della sua irruenza.

Attraversarono Phoenix e raggiunsero Downtown Scottsdale in poco più di quindici minuti, sfidando il vento che li frustava con rabbia e le luci che a intermittenza li lasciavano nel buio della notte; quando la moto si fermò davanti alla villetta bianca, Marika si catapultò giù dalla sella e mise i piedi per terra, portò le mani al petto, respirando con forza.

«Odio quando corri...» riuscì a sillabare prima che il bruno la superasse a grandi falcate per avanzare sul vialetto costeggiato dall'erba tagliata di recente e fresca di rugiada, senza degnarla di risposta.

Vincent voleva infatti assicurarsi il prima possibile delle condizioni di salute dell'amica; non aveva dimenticato le sue parole il giorno della gara, la delusione con cui gli aveva fatto notare la sua poca presenza come amico, e non intendeva usare come scusa il fatto che si fosse rivolta a Marika e non a lui per far finta di nulla.

Per la bruna quella non era la prima visita a casa di Fanny, ma non aveva la stessa familiarità e scioltezza con cui Vincent si muoveva lungo il ciottolato o faceva un cenno col capo in segno di saluto al vicino, che usciva di casa in quel momento; maldestra e rigida, arrancò dietro di lui fin quando non raggiunsero la porta dopo aver salito un paio di gradini di legno, l'insegna dorata sull'uscito portava la dicitura in caratteri eleganti "William Morgan – Anna Green", poi, quando il suono del campanello risuonò forte e chiaro, si mise al fianco del ragazzo e preparò mentalmente una giustificazione per il discutibile orario.

Ad aprire fu la madre di Fanny, che Marika non aveva mai visto e da cui rimase quasi abbagliata: una donna dalla pelle, gli occhi e i capelli di un purissimo bianco, proprio come la figlia.

«Vincent?» gli occhi chiari della signora Morgan andarono a poggiarsi subito sulla familiare figura del bruno, dal quale sembrava aspettarsi una spiegazione «Che cosa ci fai qui a quest'ora?»

Sollevata una mano all'altezza del collo, egli biascicò un po' imbarazzato «Scusa per l'orario, Anna...»

«Oh, non è un problema, lo sai che questa è anche casa tua!» con cordialità e gesti materni, fu loro rivolto un caldo sorriso e poi un invito a entrare «Non restate fuori, entrate.»

Marika seguì il giovane dentro casa; la prima cosa che la colpì fu il caldo colore arancione delle pareti, il legno della mobilia che sapeva d'antico, le foto di famiglia incorniciate, un portaombrelli vuoto, lo zerbino che recitava un "welcome home" che sapeva d'affetto, l'odore di minestra che stuzzicava l'appetito: tutto era così caldo e familiare, le ricordava l'atmosfera che solo sua madre sapeva creare e che era morta con lei.

Si sentiva, in un certo qual modo, nostalgica.

«Lei è Marika Starson.» la presentò nel frattempo Vincent, e sentendo il proprio nome Marika alzò il capo e salutò rispettosamente.

La signora Anna le regalò un sorriso «Oh, Marika! Fanny parla spesso di te, ti ammira molto. Finalmente ho il piacere di conoscerti.»

La bruna avrebbe voluto arrossire per dimostrare quanto tutto ciò le faceva piacere e la onorava, essendo molto umile non reputava che ci fosse molto da ammirare in una persona normale come lei, ma la stretta allo stomaco le ricordava che era lì per un motivo «Chiedo scusa per l'arrivo improvviso, signora Morgan. Ho ricevuto un messaggio di Fanny e sembrava molto agitata...»

Come se avesse appena rivelato un segreto di Stato a un nemico nazionale, il volto della madre si oscurò improvvisamente, tanto da far credere alla ragazza di aver combinato un disastro; era davvero così critica la situazione?

La donna corrugò la fronte e mise le braccia conserte, Marika tentò di stabilire un contatto visivo con Vincent, che però non era abbastanza empatico da cogliere il messaggio implicito che gli stava lanciando: ho detto qualcosa di sbagliato?

«È successo qualcosa?» domandò infatti, le luci dei faretti disegnavano lunghe ombre sul suo viso.

«Sì, ma...» il silenzio che seguì tenne sulle spine entrambi i giovani, che pendevano dalle labbra della donna. Questa, però, non arrivò mai. La signora scosse il capo e si soffermò su Vincent con gli occhi chiari e pietosi «È meglio che Fanny per ora non veda nessun uomo.»

Marika non afferrò bene quel concetto, o forse preferì rinchiudersi nella sua gabbia di finta ingenuità per non realizzare qualcosa di ovvio, che invece Vincent capì, comprese ed assimilò. Lo osservò tacendo mentre egli abbassava gli occhi gialli ridotti a fessure furiose, combattuto tra il rispetto per le volontà della signora Morgan e l'urgenza di salire le scale ed accertarsi che Fanny stesse bene. Le ombre del viso si allungarono ancor più e questo si fece pallido.

La sua lotta intera era quasi plateale, Marika lo aveva visto molte volte così serio ma poche così grave, tanto provò improvviso rispetto per lui; ma più forte era la sua voglia di vedere Fanny, di sapere se stava bene, così decise per il bene dell'amica di liquidare in fretta il ragazzo con un fermo «Ci penso io. Non preoccuparti.»

Le sue parole non servirono affatto a rassicurarlo, ma sembrarono abbastanza per convincerlo a desistere e tornare a casa. Vincent sospirò, infilò le mani in tasca – aveva la faccia di una persona misera, Marika si sentì quasi in colpa -, annuì e si scusò con la signora.

«È stato davvero gentile da parte tua precipitarti qui. Lo dirò a Fanny, apprezzerà sicuramente.» assicurò, con le lunghe ciglia bianchicce che le nascondevano gli occhi pieni di dolore sostenuto orgogliosamente.

Vincent se ne andò così, le spalle curve e la schiena ingobbita, la testa bassa che doleva di pensieri neri; mentre s'allontanava sul viale a passi lenti e martellanti di rabbia, la luna lo illuminò come una statua movente finché non fu lontano, sul ciglio della strada. Si voltò a guardare la casa, in particolare la finestra della stanza di Fanny: era chiusa, con le tende tirate. Non si era neanche affacciata a vedere chi era.

Intanto Marika, seguendo le istruzioni datele, saliva le scale che dall'ingresso portavano al primo piano: la porta era la prima a destra, da cui non proveniva alcun rumore, al contrario di quella affianco, su cui era inciso il nome Giles.

Il fratello maggiore di Fanny, lo psicologo, che non aveva mai avuto occasione di conoscere. Fanny la portava in casa solo quando non c'era nessuno, come se si vergognasse.

Indugiò davanti alla porta bianca, con appeso su un piccolo cartello di legno colorato in nero con teschi stilizzati rosa. C'era scritto Otaku all'opera, non disturbare o sarai mangiato da un Mimic.

"Cos'è un Mimic?" si chiese la bruna sollevando un sopracciglio – aveva un modo di farlo così esasperato che Fanny l'aveva definita "uscita da un manga", mentre Vincent liquidava dicendo che era semplicemente strana o esagerata -, tenne la mano stretta a pugno poco sopra la maniglia per qualche secondo, insicura, ma alla fine bussò un paio di volte, accompagnandosi con la voce ridotta a un sussurro gentile «Fanny? Sono Marika, posso entrare?»

Nessuna risposta.

Provò una seconda volta, ma solo alla terza da dentro la stanza una vocina debole e intimidita, ben lontana da quella squillante e vivace di quella giovane che conosceva da poco a cui sentiva di voler già bene, le rispose.

«Entra...»

Marika non se lo fece ripetere due volte, e spingendo piano la porta entrò nel mondo personale di Fanny, dove la principessa dalle chiome bianche stava raggomitolata sul letto col cuscino stretto tra le braccia e il volto rosso di lacrime.   

Twisted MindWhere stories live. Discover now