14. Prospective V, Seattle (1)

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Arco II: rEvolution

Capitolo 14: Prospective V, Seattle (1)

Quattro ore di volo erano decisamente troppe per farci l'abitudine. Non importava quante volte – tante – Vincent avesse percorso quella tratta: era sempre lunga, noiosa ed irritante.

Era partito da Sky Harbor* alle sette del mattino per essere nella città della pioggia, come la chiamava lui, poco prima dell'una; lì sua madre sarebbe venuta a prenderlo, come faceva ogni volta che l'unico figlio maschio con cui aveva ancora veri rapporti andava a trovarla.

Su quei sedili blu e troppo rigidi lui ci era praticamente cresciuto, poiché nessuno degli adulti che si occupavano di lui aveva mai accettato di accompagnarlo durante la traversata degli Stati Uniti, sia per motivi di soldi – un biglietto aereo non costava quanto uno della metropolitana! -, ma soprattutto per non incontrare persone sgradite.

Ad accompagnarlo c'era stata una hostess privata fin quando non aveva compiuto quattordici anni; erano per lo più ragazze giovani e molto disponibili, al punto da metterlo facilmente in imbarazzo.

Ricordava ancora quando, da bambino, il sedile era così grande e lui così piccolo che gli sembrava di affondarci...

- Vari anni prima, varie traversate, vari ricordi -

Una giovane donna dai lunghi capelli biondi e gli occhi verdi gli si sedette accanto: era così carina da fargli battere il cuore.

«Ho sbrigato le formalità, fin ora sei stato bravissimo, Stephan!» sorrise entusiasta.

Vincent, nei suoi eleganti vestitini estivi – pantaloncini e gilet, con tanto di cravattino, perché la mamma amava vestirlo come un bambolotto -, scosse la testa ed abbassò gli occhi, in profondo imbarazzo «Vi-... Vincent... voglio essere chiamato Vincent...»

La hostess, stavolta bruna e pacioccona, inclinò il capo come se non avesse sentito bene: lo facevano tutte, come se fosse stato scritto su un manuale «Vincent? Non è il tuo secondo nome? Ti piace di più?»

Lui annuì timidamente, affondando fino al naso nella sciarpa gialla; il papà lo imbacuccava in maniera esagerata quando lo rispediva a Seattle, ma ogni volta che scendeva dall'aereo sentiva comunque freddo.

Una mano gli scompigliò dolcemente i capelli; il viso pallido, incorniciato dalla cascata di ricci rossi della signorina, si illuminò di tenerezza «Ma come sei dolce! Non essere timido, su! Ti terrò compagnia io per questo viaggio. Oh, mi chiamo Julia.»

Julia, Melinda, Grace, tutte lo intrattenevano con lunghe partite a scacchi, libri meravigliosi che in città non trovava, videogiochi che avrebbero fatto impazzire Fanny.

E tuttavia, al di là dell'impegno della hostess del momento, ogni volta Vincent si sentiva solo: non mancavano mai domande sulla sua famiglia, a volte accompagnate da quella frase che lui odiava, "povero bambino", pronunciata sottovoce nella speranza di non farsi sentire, o quegli sguardi pieni di compassione che lo investivano come onde, o ancora il disagio quando doveva spiegare perché voleva essere chiamato Vincent e non Stephan.

Aveva chiesto segretamente a Dio più volte che lo lasciassero in pace, a crogiolarsi nei suoi pensieri neri già all'epoca, o che almeno una mantenesse i contatti con lui e gli promettesse che sarebbe stata lei d'ora in poi ad accompagnarlo ogni volta che avrebbe preso l'aereo, ma ovviamente il suo desiderio era rimasto inesaudito.

Alla fine le parole erano sempre le stesse...

«È stato un piacere viaggiare con te, Vincent! Sei davvero un bambino adorabile, spero di rivederti. Dai, adesso infila il cappottino, scendiamo.»

Twisted MindWhere stories live. Discover now