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La scuola superiore di Oakville ha una nuova studentessa oggi.
Mi sento a disagio e non poco mentre papà mi accompagna insegnandomi il percorso esatto per non perdermi qualora avessi voglia di fare una passeggiata per tornare a casa o la mattina per raggiungere il posto prima delle ore di lezione che iniziano alle nove circa.
Fino ad ora non sembra poi così difficile, visto che le strade qui sono quasi tutte dritte.
Per l'ansia che ho avuto addosso, questa notte non sono riuscita a chiudere occhio, non ho fatto colazione e in questo momento mi sento come un paletto di legno: impalata, rigida, sul punto di vomitare.
Mi sento come se la mia vita si fosse sparsa dappertutto. Come se fossi circondata dai granelli di polvere e una folata di vento improvvisa li stesse sparpagliando depositandoli ovunque.
Non sono riuscita a dormire perché continuavano a salirmi le lacrime agli occhi. Il fatto è che non mi sento ancora a mio agio nel mio nuovo alloggio. È come se mi mancasse qualcosa.
È stata una lunga settimana in cui avrei tanto dovuto ambientarmi e sentirmi di nuovo a casa.
Purtroppo, la notte scorsa da fuori proveniva un orribile rumore del vento che continuava a svegliarmi quando il cane dei vicini abbaiava per qualche minuto come se avesse il singhiozzo.
Non è tanto il cambiare scuola ma l'ambientarmi di nuovo tra i ragazzi cresciuti assieme a spaventarmi. Il trovarmi tra persone che mi hanno fatto venire i primi complessi, le prime paure.
Qui si conoscono tutti, chi più chi meno. I genitori sono amici tra di loro e i vecchietti se non ricordo male giocano sempre insieme il sabato pomeriggio e la domenica mattina.
Io sono la ragazza tornata da chissà dove, la novità del momento. La cosa non mi sembra vantaggiosa visto che odio stare al centro dell'attenzione. Ma a quanto pare sembra inevitabile perché mio padre, nel corso della settimana, ha proprio detto a tutti che sono tornata mostrandomi come un trofeo, presentandomi a gente "per bene" di cui non ricorderò mai il nome.
Mi ha anche messo in guardia riguardo qualcosa sui gruppi di ragazzi ma non ho fatto attenzione perché dovevo scegliere tra gli unici due capi di colore nero e la scelta è ricaduta anche su una felpa che la proprietaria del negozio è stata ben lieta di regalarmi per togliersela di torno, visto che il negozio era pieno di indumenti colorati in grado di farmi male agli occhi. La commessa mi ha persino guardata male quando le ho chiesto se avevano dei jeans scuri, come se avessi detto una parolaccia o qualcosa di assurdo. Per questa ragione alla fine mi sono lasciata convincere e ho comprato due paia di jeans normali di un azzurro pallido, uno dei quali indosso attualmente con i miei anfibi e la mia felpa.
Papà avrebbe tanto preferito che indossassi un maglione colorato o una camicia con un cardigan sopra, proprio come le tizie che superano l'auto quando ci fermiamo davanti il cancello del liceo che sembra più una struttura per criminali.
«Per qualsiasi cosa hai il mio numero. Hai tutto quello che ti serve?»
Carico in spalla lo zainetto. «Credo di sì. Adesso vado», dico a disagio aprendo la portiera. «Grazie per il passaggio.»
Papà mi guarda. «Lega i capelli. Più tardi ti spiegherò perché hai dovuto vestirti "normale". Mi raccomando comportati bene almeno il primo giorno di scuola.»
Faccio una smorfia guardandomi le unghie di un colore naturale e i piercing che ho dovuto sostituire per renderli il meno visibile possibile.
Mi sto sentendo più a disagio di prima. Spero ci sia davvero una spiegazione a tutta questa assurda storia sul vestirsi bene e sul comportarsi in un certo modo.
«Ok, ok», sbuffo legando i capelli, tenendo per me le risposte che vorrei tanto lasciare uscire dalla bocca che continuo a serrare per non creare problemi.
Ho il timore che prima o poi scoppierò. Spingo lo sportello uscendo in fretta dall'auto. «Buon lavoro.»
«Buona giornata e non cacciarti nei guai, Erin.»
«Ricevuto», replico quando lo ripete, avviandomi all'entrata.
Che cosa potrei mai voler fare in un ambiente che non conosco?
Cammino piano vedendo la scena a rallentatore. Tutti a voltarsi, a fissarmi. Mi squadrano da capo a piedi probabilmente pensando: "guarda, c'è quella nuova. La figlia del sindaco. Dicono che sia stata in un centro per tossici". "Guarda che capelli e che trucco".
Stringo la presa sul manico dello zainetto guardando davanti a me come se niente fosse, mentre dentro sto tremando sentendo forte il peso dei loro pensieri, dei loro pregiudizi.
Ho imparato a farlo. Con il tempo mi sono adattata e alla fine ho capito come comportarmi in determinate situazioni. Bisogna mantenere la calma.
Sono consapevole di non essere poi così bella e abbronzata come loro, di non avere i capelli biondo paglierino e la linea di eyeliner sottile e precisa sulle palpebre. Non sono neanche una giocatrice di pallavolo o una cheerleader dalle gambe slanciate e dal sorriso smagliante. E mai lo sarò. Il pensiero mi fa persino ribrezzo.
Sono brava negli sport soprattutto nel nuoto. Sono coordinata e leggiadra grazie alle inutili lezioni di danza che mia madre mi ha costretto a prendere fino ai tredici anni.
Ad ogni modo la mia pelle rimarrà color bianco muro, i miei occhi verde acqua chiarissimi e terribilmente sensibili alla luce e i miei capelli indomabili e colorati. Avrò i piercing. Soprattutto avrò quella parte di me che si sente rotta, spezzata e spenta. Mi accompagnerà in questa nuova avventura che spero possa concludersi in fretta.
Raggiungo il corridoio cercando il mio armadietto leggendo sul foglio il numero. Pesco la chiave e proseguo nascondendomi tenendo a freno la voglia di girare sui tacchi e scappare quando qualcuno mi si avvicina anche solo per sbaglio.
Ovviamente ci sono quelli che lo fanno per guardarmi meglio in faccia mentre altri si limitano a chiedere: "tu sei quella nuova?".
Apro l'armadietto impiegando qualche istante per capire come non incastrarlo.
Sento bisbigliare alle mie spalle per tutta la durata della prima ora in cui per fortuna il professore non mi fa presentare davanti a tutti evitandomi una pessima figura.
Le voci, gli sguardi, i bisbigli continuano fino ad ora di pausa in cui mi siedo fuori con le cuffie alle orecchie e una barretta ai cereali che mangio quasi costringendo me stessa a mettere sotto i denti qualcosa.
Pescando lo specchio dallo zainetto osservo il mio riflesso pallido. La mia pelle sembra quasi trasparente sotto i raggi del sole che arrivano privi di calore in questa giornata fredda.
Riponendolo mi guardo intorno notando tutte le persone presenti divise in piccoli gruppi. Ridono, chiacchierano, si prendono in giro, scherzano. Alcuni ragazzi passandomi da vicino mi fanno un breve cenno di saluto. Ma dietro le lenti scure non notano il mio continuo alzare gli occhi al cielo.
Caccio una gomma in bocca per sedare l'enorme fonte di stress alla quale mi sento sottoposta contro la mia volontà.
Mi trovo a disagio tra tutte queste persone. Non sarò mai capace di inserirmi senza apparire come la tipa strana arrivata da chissà dove. In realtà non sono mai riuscita a prendermi un posto in un gruppo, una posizione tra le persone perché sono sempre stata molto timida e impacciata, spaventata all'idea di poter essere giudicata diversa. Sono sempre andata d'accordo con i casi umani come me. Quindi qui non sarà diverso. Rimarrò l'anonima figlia di papà dai capelli colorati perché per me è difficile rimanere in sintonia con le persone. In realtà non riesco neanche a convivere con me stessa.
Mi alzo per andare in segreteria a prendere il resto del mio orario che, a quanto pare è cambiato nel corso delle prime due ore a causa di qualche cambio di aula in cui dovrei essere con altri compagni forse più simpatici e svegli soprattutto con meno pregiudizi, visto che sono stati proprio loro a volermi fuori. A quanto pare sono ritenuta una distrazione.
La stanza in cui mi ritrovo è terribilmente piccola. Mi suscita immediatamente un senso di claustrofobia per me e per la donna dietro al lungo bancone che si staglia davanti.
Di fianco a me disposte ordinatamente ci sono delle poltrone apparentemente scomode. L'angolo funziona come sala d'attesa. Infatti molti sono gli studenti seduti e appunto in attesa di essere aiutati.
Il pavimento è coperto da una moquette consumata dai passi, dal tempo, ormai di un beige sbiadito, le pareti color panna sono tappezzate di fogli: avvisi, graduatorie e volantini di vario genere. Su un pilastro in alto vi è un orologio abbastanza rumoroso. I numeri quasi non si vedono. Una palma dentro un vaso bianco di ceramica all'angolo sembra tanto soffrire.
Dietro il bancone una scrivania dotata di computer, stampante e moduli, c'è una donna vecchio stampo dai capelli biondi con qualche filo bianco che si nota appena perché sono raccolti dietro e ben tirarti agli angoli.
Attendo il mio turno annusando l'aria che profuma di spray per ambienti alla vaniglia insieme a qualche profumo portato dai presenti che dal mio arrivo non hanno ancora smesso di fissarmi.
La cosa brutta è che non distolgono lo sguardo neanche quando li guardi per farli smettere.
Quando arriva finalmente il mio turno mi avvicino al bancone alzandomi quasi in punta di piedi per avere qualche centimetro in più di altezza.
La donna davanti a me indossa una camicia con un cardigan rosa pesca sopra e una gonna stretta lunga fino al ginocchio. Alza lo sguardo rivolgendomi la sua attenzione dopo avere stampato qualcosa.
«Posso esserti utile?»
«Sono Erin Wilson. Avrei bisogno del nuovo orario. Sono stata spostata in un'altra classe e mi hanno detto che qui avrei trovato quello che mi serve, senza pregiudizi», non so perché ma la informo del problema usando un tono di rimprovero.
Vedo i suoi occhi illuminarsi come una luce di Natale. Ed ecco anche il modo in cui mi fissa intensamente giudicandomi ad impatto non appena sente il mio nome ricollegandolo alla parentela.
Odio essere al centro dei pettegolezzi ma a quanto pare è inevitabile.
Per tutti sono la povera bambina costretta a vivere con la madre, una degenerata, una traditrice. Sono la ragazzina tornata dal padre per essere guidata e istruita come si deve.
Ma molti non si rendono minimamente conto del fatto che spesso un ramo si aggiusta solo quando è ancora verde e che se provi a farlo quando è maturo e ormai rigido, si spezza.
«Un momento», risponde con un sorriso rovistando con una mano dentro un cassettone pieno di cartelle e con l'altra clicca sulla tastiera del computer usando un solo dito.
Dopo una manciata di secondi si sposta verso la stampante tornando con dei fogli.
«Ecco qui il tuo nuovo orario. Hai bisogno di una guida, di una cartina per non perderti o...»
Sto già negando mostrandole un sorriso timido. «No, grazie. Buon lavoro e buona giornata.»
Fuori dalla porta lascio uscire un enorme sospiro controllando l'orario nuovo. Ho circa due ore libere prima di tornare a lezione, noto.
Pertanto mi sposto in libreria, quella adiacente alla biblioteca della scuola dove facendomi aiutare dall'anziana signora che vi lavora prendo i libri che mi servono.
Prima dell'ora di pranzo mi ritrovo ad una lezione noiosa di storia. Io odio questa materia. Non sono mai riuscita a studiarla come si deve, a memorizzare ogni evento storico ricordando nel dettaglio il concatenarsi di eventi, guerre e sconfitte.
Attualmente quello che voglio è sentire il rumore della campanella e terminare questa prima assurda giornata di scuola. Per fortuna in questa aula Nessuno sembra avere dei pregiudizi, anche perché sembra piena di gente come me: gli invisibili.
La mensa si trova nel secondo edificio. Sul muro vi è l'insegna elementare ad indicarla.
Più mi avvicino, più sento di non doverlo fare. Purtroppo ho fame e ho bisogno di mangiare qualcosa per non svenire di colpo e fare una brutta figura.
Mi accorgo che sto sudando freddo e cerco di tranquillizzarmi sul fatto che non succederà niente perché passerò inosservata.
Varco l'entrata e sento il suono della radio, il rumore delle tazzine che cozzano sui piattini. E ancora l'odore del caffè, del cibo caldo. Il baccano generato dagli altri studenti.
Prendo un vassoio sulla quale dispongo una mela, una confezione di cracker e un succo di frutta alla mela verde e kiwi. Dopo avere chiesto come funziona la mensa alla donna dietro il registratore, striscio la mia carta dello studente scegliendo in fretta un posto a sedere in fondo alla sala, superando velocemente chiunque senza neanche dargli il tempo di osservarmi o fermarmi.
Attualmente ho bisogno di starmene per i fatti miei. Solo così riuscirò a scaricare la tensione che porto addosso ormai da diverse ore.
Mangiucchio pescando un tascabile arrivato per fortuna integro insieme agli altri libri che ho già riposto in libreria e mi rilasso. Almeno fino a quando non mi si avvicina qualcuno.
Inizialmente non me ne rendo conto. Solo quando sollevo la testa mi accorgo di avere davanti il passato.
Riconosco la sua chioma di capelli, un tempo castani adesso bruciati dall'ossigeno, ancora prima di sentire la sua voce stridula che, non sembra cambiata neanche un po'.
«Erin, sei davvero tu?»
Mi guarda con aria di sufficienza mista a sorpresa tenendo una mano sul cuore, spostando poi la macchia di capelli lisci apparentemente pesanti dietro la schiena.
Davanti a me Harper Morris, una delle mie migliori amiche d'infanzia.
«In carne ed ossa», rispondo lasciando il mio pasto freddo e scarso chiudendo il libro, sentendo addosso parecchi occhi che adesso stanno notando l'incontro tra due che non si vedono da anni.
Bisticciavamo praticamente su tutto. Io ero quella razionale e lei quella spericolata ma alla fine eravamo come quasi tutte le bambine: inseparabili, complici, amiche.
Poi non l'ho più rivista e, in parte credo che per me sia stata la cosa migliore. Sono viziata ma non quanto lei. Lei è pericolosa. Basta proprio vedere com'è cambiata per capire che bisogna starle alla larga.
«Oh mio Dio, fatti vedere», apre le braccia sorridendo con la sua dentatura perfetta che mette in mostra come se fosse Miss Mondo. «Quanto sei cresciuta e sei... davvero bella.»
Mi abbraccia velocemente poi sedendosi accanto, circondandomi le spalle con un braccio mi avvicina emettendo uno strillo di gioia.
È così falsa ma credibile da farmi paura.
«Mi sei mancata. Da quanto tempo, eh?» alza il tono per farsi sentire.
Il suo odore è stucchevole. Un misto di oli essenziali e mirtilli. Sulla sua faccia tanti strati di fondotinta e illuminante. Per non parlare delle ciglia finte che continua a sbattere come due ventagli e delle labbra rimpolpate dal gloss a renderle davvero enormi.
«Già...», non so proprio che cosa dire. Mi sento spiazzata. Avevo proprio dimenticato questo dettaglio.
Le cose si complicano con lei tra i piedi, mi dico guardando l'uscita della mensa dalla quale sono entrata.
Quando entra in gioco Harper Morris tutto cambia. Puoi tentare di farla franca, di sfuggire al suo controllo, ma alla fine farai sempre quello che vuole. Ed io non voglio di certo ritrovarmi nei guai proprio adesso che ho bisogno di un po' di tranquillità e di seguire le regole.
«Allora, dove sei stata? Mi erano arrivate delle voci ma non pensavo di vederti proprio oggi e qui a scuola.»
«Ho girato per un po' e adesso sono qui da mio padre», balbetto quasi. «Rimarrò per qualche mese. Non posso saltare la scuola.»
Harper saluta delle ragazze vestite come lei da cheerleader con la coda alta e l'andatura da modelle poi si rivolge di nuovo a me alzandosi. Non è davvero interessata al racconto della mia vita.
«Mi ha fatto davvero piacere vederti. Questa sera ci sarà una festa, devi assolutamente venire. Non puoi rifiutare, sei mia ospite», alza il tono strizzandomi l'occhio senza darmi altri dettagli sull'evento.
Rimango impalata, la bocca aperta.
Quando sparisce abbasso le spalle scuotendo immediatamente la testa. Non sono riuscita a rifiutare, come al contrario avrei tanto voluto fare.
Mi guardo attorno un momento. Qualcosa è cambiato. Noto che adesso tutti mi guardano in modo diverso rispetto a prima. Non sono più l'appestata che sta invadendo il loro spazio. Harper gli ha come dato un incentivo a portarmi rispetto, a non ritenermi un pericolo.
È così che funziona da queste parti, mi dico notando atteggiamenti e movenze diverse dai posti in cui ho passato la vita.
Finito finalmente il primo giorno di scuola, senza apparenti intoppi oltre all'incontro con una vecchia "amica", agli sguardi curiosi e al cambiamento di aula per motivi di distrazione da parte dei compagni, mi avvio verso casa percorrendo le strade che papà mi ha mostrato poche ore prima, controllando i miei social, l'unico svago ancora attivo.
Qui vedo le foto di mia madre, sorridente insieme ad Harvey. Non sembra affatto provata dalla mia assenza. Non ho neanche penso di inviarle un messaggio e lei non si è neanche presa la briga di chiedermi se sono arrivata, se sto bene. Vedo anche quelle di mia nonna che ha cucinato i suoi piatti tipici al ristorante e li ha postati tutti nella sua pagina per fare venire l'acquolina e quelle delle persone che seguo apparentemente felici.
Mi fermo ad un incrocio isolato scattando una foto. «Hashtag: sono in mezzo al nulla e tutti mi guardano con sospetto», brontolo pubblicando la foto.
Un clacson mi disturba e non appena mi volto mi casca letteralmente la mascella.
Mason Turner insieme ad Harper, nella stessa decappottabile rosso fiamma.
Il cuore mi prende a battere forte alla vista di lui che le sfiora una guancia per stuzzicarla quando prova di nuovo a suonare il clacson.
Adesso, stanno insieme? Davvero?
Mi sento male. È come un colpo al cuore. Una doccia gelata in pieno inverno.
Mason Turner è un ragazzo che si fa notare non solo perché bravo nello sport ma per la sua naturale bellezza.
Più grande di due anni. Alto, atletico, moro, occhi a mandorla e sorriso sfacciato: è la mia cotta. Quella che dura ormai, si direbbe, da una vita.
Da tempo continuo a stalkerarlo sui social per sapere quello che fa. Lui non sembra nascondere niente e ogni giorno posta sempre qualcosa di divertente sul suo profilo Instagram condividendo con noi poveri mortali la sua fortuna.
Ma non sapevo che lui e Harper stessero insieme. Non ha mai postato niente al riguardo.
Merda, questa proprio non ci voleva.
«Erin», strilla Harper.
Lui mi guarda abbassando gli occhiali da sole. Sgrana lievemente gli occhi scuri ma voltandosi e notando lo sguardo di Harper trattiene ogni istinto.
Ci conosciamo perché da piccoli giocavamo tutti insieme e lui era sempre il mio principe azzurro, quello valoroso.
Harper lo prendeva sempre in giro e adesso... com'è strano il destino.
«Prima non ti ho detto a che ora passeremo a prenderti», mi fa presente.
Ci sarà anche lui?
«Alle otto in punto. Indossa qualcosa di colorato e togli quegli arnesi dalla faccia.»
Guardo per istinto la mia felpa e tocco il piercing al naso.
Ma che hanno contro queste cose?
«Ok», sussurro più a me stessa senza davvero ascoltarla.
Soddisfatta ghigna dando un colpetto sul braccio a Mason. «Non è bello? È tornata la mia amica!» strilla. «Non giocavate insieme voi due?» lo prende in giro. «Facevi sempre il suo... principe.»
Lui sorride quasi imbarazzato facendomi un cenno di saluto. «A stasera, Erin», dice e premendo sull'acceleratore, sgommando si allontanano.
Ancora una volta lascio uscire il fiato trattenuto. Sfioro le guance calde e spero vivamente che Harper non si sia minimamente accorta della mia reazione alla vista di Mason.
Mi sembra impossibile che si ricordi della mia cotta per lui, anche se ha ricordato che giocavamo insieme.
Inoltre, ho il terrore delle feste. Dopo l'ultima volta, dubito fortemente di volere partecipare ma, a quanto pare non ho molte alternative al momento. Ho bisogno di trovare degli amici per svagarmi, per non pensare alla mia vita che sta andando letteralmente in frantumi.
In cuor mio spero vivamente di riuscire ad andare via da questo posto il prima possibile.
Con questi pensieri per la testa, arrivo incolume a casa trovando appeso al frigo un messaggio di papà in cui mi avvisa che non sarà a casa questa notte.
Mi guardo intorno appoggiandomi al ripiano della cucina a braccia conserte.
È così che sarà adesso? Io qui da sola e lui a lavoro?
Il mio telefono ronza dentro la tasca.

Come crepe sull'asfaltoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora