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BRADLEY

L'amore di una persona sola non è abbastanza. Non puoi sempre regalare l'anima a chi non è disposto ad aprire il suo cuore, a offrirti un posto speciale al suo interno. Non puoi sempre scendere a compromessi con qualcuno che non sarà mai in grado di cedere, di lasciarsi andare. Arriva. Arriva il momento in cui il tuo amore non basta più. E smetti. Dici basta. Metti un punto a tutto.
«Vaffanculo, Erin!»
Le parole mi escono dalla bocca senza controllo. La rabbia esce allo scoperto insieme alla delusione che presto si fa strada dentro di me facendomi allontanare da lei, dal suo viso, dal suo corpo, dai suoi occhi sgranati. Non riesco più a stare qui dentro con lei. Le pareti iniziano a soffocarmi restringendosi ai miei occhi.
Come è possibile tutto questo? Perché diavolo non si è ancora mossa?
Non ha neanche avuto il coraggio di dirmi in faccia che non mi vuole. Che non ha interesse nei miei confronti. Avrei apprezzato un po' di sincerità da parte sua. Che cosa ha che non va?
È anche questo la vita. Un giorno ti accorgi di due occhi e speri ardentemente di essere visto. Un giorno incontri qualcuno, la persona che cercavi e invece ti rendi conto di non esserti avvicinato ad essa abbastanza. Succede. È inevitabile. Si è sempre invisibili agli occhi di chi tu vedi e anche bene. E succede. Succede quando senti che stai perdendo tutto. Perdi la testa. Perdi il controllo. Crolli.
Me ne vado. Niente più parole. Niente gesti improvvisi e forti. Me ne vado chiudendo alle spalle la porta. Il rumore rimbomba intorno. C'è silenzio ma il mio cuore lo disturba battendo all'impazzata con uno sforzo immane. Decido di chiuderlo perché niente e nessuno dovrà più farmi sentire in questo modo. Nessuno dovrà toccarmi nel profondo ferendomi. Non permetterò più a nessuno di avvicinarsi alla mia anima.
Nel laboratorio trovo Samantha e Stan impalati e sconvolti. Non osano respirare. Leggo nei loro occhi lo sgomento. Hanno sentito la mia sfuriata. Ovvio, mi sono messo ad urlare come un pazzo. Non sono riuscito proprio a trattenermi. E se penso che non ho ottenuto risposta, mi sento ancora peggio, instabile.
«Che cosa è successo?», osa chiedere Samantha più che allarmata dal mio improvviso cambiamento di umore.
Non mi conoscono. Non mi hanno mai visto davvero arrabbiato e fuori controllo. Solo Stan sa bene il modo in cui scarico la furia. E attualmente, mi segue ad ogni passo pronto a fermarmi.
«Cazzo!», urlo stringendo un pugno sulle labbra prima di scrollare la mano.
Samantha prova ad avvicinarsi ma Stan la ferma posandole la mano sulla spalla. Le fa cenno di non muoversi con una scrollata della testa. Lei prova subito a ribattere più che ostinata.
«Non ora», sibila voltandosi.
Mi guarda attento, come se fossi un animale in gabbia pronto ad uscire e ad azzannare chiunque.
«Brad, perché stavi urlando?»
Perché dare loro delle spiegazioni? Le persone litigano di continuo per qualsiasi cosa. Non è un dramma se ho alzato la voce e me ne sono andato più che deluso anziché continuare a sentirmi usato e preso in giro.
«Voglio solo andarmene da questo cazzo dì posto e smetterla di sentirmi così idiota a stare dietro ad una bambina spaventata dalla sua stessa ombra. Sono stanco di vederla schiva tranne quando è con il suo fottuto amico!», urlo senza una ragione contro i due gesticolando come un pazzo. «Perché alla fine si tratta proprio di questo. Con lui si comporta normalmente mentre con me... con me continua a chiudersi e a tenersi a debita distanza.»
Samantha apre e richiude la bocca sbirciando dal vetro della porta. Si volta con una smorfia. «Perché Erin se ne sta impalata? Che cosa le hai fatto?», alza il tono. Mi sta già accusando. Ma se ha sentito quello che è uscito fuori dalla mia bocca, dovrebbe capire che in fondo la colpa non è solo mia.
La sua voce stridula perfora i miei timpani. «Io? Pensi sia stato io? La tua amica non è di certo uno stinco di santo. Fatti dare da lei una spiegazione perché ho chiuso. Ho chiuso!», ripeto più forte facendola sussultare.
I due davanti a me mi guardano sempre più confusi e sorpresi di vedermi così arrabbiato e privo di controllo. Nessuno sa quello che sento in questo momento. Nessuno può immaginare quello che mi balena nella mente. So solo che devo allontanarmi perché ogni minuto che passa mi sento sempre più uno schifo.
Stan fa un passo avanti io uno indietro togliendomi la sua mano dalla spalla quando prova a toccarmi credendo di potermi calmare.
«Sai che è colpa tua se è successo», lo spingo e detto ciò me ne vado usando la porta di servizio.
Più che infuriato, una volta avere svoltato strada, ringhio mollando un pugno sul muro. Sento al polso un dolore acuto. Lo scrollo e fisso apatico le nocche che via via si stanno insanguinando e macchiando di viola e rosso scuro. Apro e richiudo la mano non sentendo più niente se non furia.
Stan esce dal locale di corsa, guardandosi intorno, più che affannato, mi individua in fretta chiudendo la porta.
«Brad!», mi chiama. «Brad, fermati!»
Mi rincorre e quando prova a bloccarmi la strada, a fermarmi, lo spingo puntandogli il dito contro. «Non dirmi niente. Niente!», urlo. «Tu sei proprio l'ultima persona che può parlare in questo momento!»
Mette le mani in avanti notando i miei occhi cerchiati di rosso e di rabbia e i miei denti bene in mostra. Non mi sono mai sentito così carico, così indomabile come in questo momento.
Certe delusioni provocano rotture interiori indelebili.
Stan incassa le mie parole. Non si scompone come so che farebbe con chiunque altro. «Non è colpa mia e lo sai. Ti stai comportando da pazzo senza una ragione.»
Il suo tono calmo mi fa ribollire ulteriormente il sangue. «È colpa tua perché ragioni con il cazzo non con il cervello. È colpa tua se siamo tornati qui, se ho conosciuto quella dannata ragazza e se mi sono convinto a darle una possibilità, a mettermi in gioco lasciandomi alle spalle le esperienze passate disastrose. È colpa tua perché non mi hai fermato, non mi hai avvisato che avrebbe fatto tanto male. Avresti dovuto farlo! In fondo sei mio amico e in quanto tale ne hai tutto il diritto. Io non ti permetterei mai di cadere o di lasciarti distrarre da qualcosa che ti farebbe stare male.»
Stan contrae la mascella. Dopo un momento mi afferra per le spalle sbattendomi contro la saracinesca chiusa di un magazzino per mettermi a tacere. Sa che sto straparlando perché non posso fare altro, non posso sfogarmi come vorrei tanto fare. Come facevo un tempo quando ero solo un ragazzino arrabbiato con tutto e tutti.
«Stammi bene a sentire stronzetto incazzato», ringhia tenendomi fermo. «Io non ti ho fermato perché per la prima volta in tutta la tua vita del cazzo di cui ho fatto parte, ti ho visto felice e non ho ritenuto necessario intervenire. Non è colpa mia se non riuscite a comunicare o se tu, già, proprio tu non riesci a capirla. Non è colpa mia se quella ragazza in questo periodo ricorda quello che le è successo anni fa», sbraita. «Quando un ragazzo l'ha presa in giro e poi ha rischiato di essere la prigioniera di uno psicopatico!», continua con occhi accesi e le spalle sempre più tese.
Vedendomi meno carico di prima annuisce. «Sentiti pure una merda adesso», esclama lasciandomi andare con uno strattone.
Stan mi conosce. Sa che il peso delle sue parole si sono appena abbattute su di me facendo più male. È come se in un attimo ogni consapevolezza, ogni pensiero si fosse trasformato in qualcosa di più profondo, di pericoloso e duro da accettare.
Allora è questo quello che turba Erin? Ma se è passato perché continua a farle così male? Davvero non riesce a lasciarsi tutto alle spalle?
Da quando la conosco si è sempre dimostrata determinata, attenta e abbastanza diffidente ma mai come oggi: un casino totale. Era confusa, gelosa e nel panico allo stesso tempo. Come può pretendere che io sia presente nella sua vita se non mi permette di entrare a farne parte completamente?
Stan mi vede riflettere ma decide lo stesso di mettere il dito nella piaga, di infierire ancora su di me. Perché sa esattamente quello che mi serve per recuperare lucidità. «Brad, non ragioni più. E so che Erin ha sbagliato prima, ma tu hai infierito su di lei non comprendendo le ragioni del suo "strano" comportamento. Ti ha tenuto lontano perché ha paura di perderti, non perché pensa al suo amico Shannon. Si è trattenuta mentre la minacciavi di uscire con un'altra perché non pensava di potere riprovare qualcosa di forte per qualcuno. Amico, lei non vuole deluderti perché sei il primo a cui permette di avvicinarsi al suo cuore dopo tanto tempo. E non dovrei dirtelo ma voglio proprio farti un male cane adesso: Samantha mi ha anche detto che quando si è allontanata da te dopo quella scenata di gelosia, lei gli ha detto che ci tiene a te, che potrebbe essersi persino innamorata. Sai che cosa significa questo per una persona che ha vissuto l'inferno? Hai rovinato tutto quanto. Adesso vattene dove ti pare a piangerti addosso o a sfogare la tua inutile rabbia repressa. Ma sappi che quando tornerai, perché lo farai, lei sarà ancora qui ad aspettare. Anche se ti sei dimostrato una delusione e un coglione.»
Improvvisamente i castelli costruiti crollano intorno a me. Inizio a sentire il peso del senso di colpa. Ma come faccio a chiederle scusa se è stata lei a ferirmi tenendomi continuamente a debita distanza? Perché non può semplicemente lasciare decidere me?
Ci sono ferite che non si rimarginano al sole, rimangono segni aperti, non guariscono. Sono quelle le vere ferite. Sono quelle che fanno male a distanza di anni. Sono quelle che tornano a sanguinare ad ogni ricordo.
Erin è come una ferita aperta. Non è vero che non crede più nell'amore, nella fiducia. Ci ha creduto così tanto da distruggere il suo cuore. Ha ricevuto poco amore, poco affetto. Troppe delusioni. Troppo dolore. Ma non per questo non ha provato niente. Forse lei sente più di tutti. Solo... lo tiene nascosto in quella scorza dura che non lascia scalfire da nessuno. Lo protegge dagli stronzi come me che credono di sapere tutto.
«Cazzo!», metto le mani sulla testa. Cammino avanti e indietro un paio di volte. «Che cosa ho fatto?», vado nel panico.
Stan si appoggia contro la parete. Guarda in alto poi si concentra di nuovo su di me. «Io capisco la tua reazione. Penso che hai fatto bene a farle vedere anche questo lato di te. Ma avresti potuto anche trovare un modo diverso in una situazione diversa. Forse le darà una scrollata e penso anche una spinta per fare una mossa. Anche se la farà soffrire. Ma non penso sia proprio il momento giusto per questo e lo sai anche tu.»
Mi fermo. Le cose si fanno sempre più complicate. Io lo sapevo che prima o poi avrei rovinato tutto. Lei però non ha fatto altro che starsene in silenzio con quell'aria dispiaciuta e persa. Avrebbe dovuto affrontarmi. Sarebbe stato meglio per entrambi avere un confronto spietato e diretto.
«Che cosa ho fatto?», ripeto.
«Non hai fatto niente di sbagliato. Hai solo ascoltato le tue sensazioni. Adesso smettila di autocommiserarti e andiamo a berci una birra. Abbiamo ancora dei piani. E se tutto va bene stasera io starò con Sammy. Sempre se non succede qualcos'altro.»
Gli mostro il pugno, le nocche insanguinate vergognandomi del mio atteggiamento. «Prima devo farmi medicare questo», dico.
Lo guarda inorridito. Alza persino gli occhi al cielo imprecando a denti stretti. «Sai che non potrai lavorare per qualche giorno o mese se è rotto?»
«Ringrazia l'amica della tua ragazza!», sbotto tornando in me.
Scuote la testa sbuffando più che esasperato. «Andiamo, ti porto in ospedale per fare una lastra», mi molla una sberla sulla nuca. «Sai che non voglio lavorare con un altro dei nostri colleghi. Uno ha l'alitosi, l'altro mangia di continuo panini o cibi al formaggio come se fosse un ratto. Sarebbe un casino dentro il furgone!»
Mi scappa un sorriso se non una risata. «Sarebbe la giusta punizione», replico entrando in auto. Guardo la porta a vetri del locale. L'istinto mi dice di andare lì dentro e continuare il litigio ma la ragione frena tutto. Forse Erin adesso ha bisogno di rimuginarci sopra.
«Non avvisi la tua donna?»
Prende il telefono mostrandomelo. «Le mando un messaggio. Tranquillo non le dico che hai appena preso a pugni un muro per la rabbia e ti sei sfracellato il polso. Ti prenderebbe per stupido. Inoltre glielo direbbe, quelle due non hanno filtri o segreti e questo la farebbe solo spaventare. Non hai visto come è entrata in laboratorio. Era atterrita.»
Faccio una smorfia guardando fuori dal finestrino mentre le prime luci dei lampioni si accendono una dietro l'altra. Sto cercando di togliermi dalla mente la sensazione che ho percepito prima di mandare tutto all'aria.
Mi aggrappo alla vista dei palazzi, alla segnaletica stradale, ai pedoni distratti che scompaiono in metropolitana. Fisso i cartelloni pubblicitari, gli autobus che passano, i taxi che sfrecciano. Ascolto il suono della città in cui ho sempre vissuto.
«Non ha detto una parola a parte "ho perso di nuovo tutto". Samantha mi ha chiesto di fermarti e io ti sto portando all'ospedale qui vicino dove sappiamo bene chi troveremo. Mentirle mi fa sentire un idiota ma sarò soddisfatto se troveremo Shannon. Sarai proprio fortunato se è di turno quello là.»
Sussulto. Una scarica fredda mi attraversa da capo a piedi. Non avevo pensato a questo dettaglio. Abbasso lo sguardo. Muovo la mano e il dolore si dirama sull'avambraccio. Stringo i denti.
Me lo merito. Merito di sentire tutto questo, per essere stato impulsivo, per non essermi trattenuto. Per essere scoppiato nel peggior momento in assoluto.
Stan guida tranquillo. Sono poche le volte in cui l'ho visto arrabbiato per davvero. Ha un carattere forte, allegro e spesso si comporta di proposito da testa di cazzo per evitare scontri inutili o per stuzzicare le persone. Siamo molto diversi ma ci capiamo al volo. Anche se attualmente lo sta facendo di proposito. Sta infierendo per farmi sentire in colpa.
«Che cosa ti è saltato in mente?», cerca delle risposte.
Stringo il pugno buono. «Non ne ho idea. Avevo bisogno di scaricare la rabbia e il senso di frustrazione. Non mi sentivo così da anni. Sapevo di non dovermi interessare più ad una ragazza così tanto. Lo sapevo!»
Stan aumenta la velocità posteggiando in una piazzola segnata dalle strisce bianche. «Togliamoci il pensiero e spera che non ci sia niente di rotto o ti spaccherò l'altra mano. Così ci penserai un paio di volte la prossima volta.»
Esco dall'auto entrando in ospedale. Mi fermo alla reception, davanti alla ragazza che si trova dietro la scrivania. «Buona sera, motivo dell'urgenza?»
Sollevo il braccio. «Penso di essermi rotto il polso, in caso contrario devo farmi medicare le nocche.»
La ragazza evita i miei occhi arrossendo. Succede spesso. Come se io potessi rubare loro l'anima. Ma volevo solo rubare il cuore di una ragazza. Invece ho distrutto il mio. Si può essere tanto stupidi?
«Si accomodi in sala d'attesa dopo avere compilato questo modulo. Qualcuno verrà ad aiutarla a breve. Al momento i dottori sono tutti impegnati.»
«Il mio amico potrebbe sentire dolore e perdere sangue non può dargli qualcosa?», inizia a protestare Stan.
Ha accantonato la parte dell'amico arrabbiato per assumere l'aria apprensiva di un fratello maggiore. La cosa più curiosa è che non ha tentato di flirtare con la ragazza. Samantha gli piace più di quanto non dà a vedere.
La ragazza dietro la scrivania, piccola di statura, occhi a mandorla e capelli scuri raccolti in una coda bassa, appare desolata. «C'è stato un incidente e i dottori sono quasi tutti impegnati. Dubito che il suo amico provi dolore o stia morendo dissanguato, altrimenti sarebbe arrivato in lacrime o svenuto.»
Che cosa significa? Non sono mica di acciaio inossidabile io. Anch'io mi piego. Anch'io sto male. Anch'io se mi ferisco sanguino e provo dolore. Solo che ho una soglia abbastanza alta. Sopporto senza frignare. L'ho sempre fatto, anche da piccolo quando avrei potuto fare i capricci e farmi regalare qualsiasi cosa.
«Bradley non ha mai pianto per un graffio, figuriamoci per un polso rotto. In ogni caso mi ricorderò di lei e della sua indifferenza», minaccia. «È il suo lavoro prestare soccorso. Che sia una gamba rotta, un dito mozzato o una cazzo di mano ferita.»
La ragazza sgrana impercettibilmente gli occhi cercando di capire se chiamare la sicurezza o scappare con una scusa. Stan sa essere inquietante quando si arrabbia.
«Andiamo», gli dico notando che è sul punto di continuare dopo avere firmato malamente il modulo ed essermi scusato con la ragazza che ci segue ad ogni passo.
Lo spingo recandomi in sala d'attesa, un quadrato pieno di sedie con un monitor in alto attualmente sintonizzato sul canale sportivo. Qui mi siedo su una delle sedie imbottite mettendomi comodo.
Ho perso il conto delle volte in cui mi sono trovato in una situazione simile. Ma non è mai stato per me. Sempre per gli altri.
Stan si siede nervoso accanto a me. Guarda la tv poi lo schermo del telefono continuando a muovere la gamba più che nervoso. Mi guarda un paio di volte di sbieco ma non mi muovo dalla mia posizione comoda.
«Non hai protestato. Stai davvero male», borbotta. «Ti sei davvero innamorato.»
Tiro indietro la testa chiudendo gli occhi mentre il polso pulsa dolorosamente. Tengo per me quello che sento. Dubito che la gente possa comprendere come mi vedo riflesso negli occhi di quella piccola stronza. «Vammi a prendere un caffè così ti sgranchisci le gambe e la smetti di dire stronzate. Così continui anche a mandare messaggi alla tua ragazza da un'altra parte per aggiornarla come un ragazzino.»
Evita di replicare acido. Sa quanto divento nervoso quando mi contraddice.
Quando Stan è lontano pesco il telefono dalla tasca. Trovo un messaggio. Premo il dito sull'icona dopo un attimo di esitazione. Il mio cuore prende a battere in maniera scostante.

Come crepe sull'asfaltoWhere stories live. Discover now