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Non mi sono mai fidata totalmente delle persone. La fiducia per me è importante. Perché quando ti fidi della persona sbagliata rimani con gli occhi gonfi e stanchi, con le braccia vuote e una profonda ferita difficile da rimarginarsi. E io, non voglio più rischiare di farmi male rincorrendo chi non merita il mio amore.
Entro in casa facendo piano dopo avere notato l'auto di papà ferma sul vialetto.
Attualmente si trova nel suo studio. Noto la luce filtrare proprio sotto la porta, dalla fessura e la sua voce intonare tra le pareti.
Parla con qualcuno al telefono. Rimane in silenzio per qualche istante poi risponde apparentemente preoccupato più che nervoso.
Decido di non origliare. A passo felpato salgo in camera, chiudo bene la porta del bagno e dopo essermi spogliata, faccio una lunga doccia per scaricarmi di dosso tutte le sensazioni provate nel corso di questa lunga giornata estenuante.
Prima ho incontrato un vecchio compagno di giochi di cui non ricordo molto, poi mi sono ritrovata in una gelateria con Harper e la cosa mi ha destabilizzata e non poco quando mi ha fatto capire che conosce i miei sentimenti verso il suo ragazzo. Come abbia fatto a capirlo, non me lo spiego visto che eravamo solo delle bambine e non metto piede in questo posto da anni. Forse sono stati i miei rari sorrisi quando ci siamo incontrati con lui proprio davanti a lei a farla ingelosire e a farle intuire che ho sempre avuto una lieve cotta per lui.
Purtroppo ho assistito ad una cosa bruttissima e vissuto un momento davvero orribile, in cui mi sono sentita rifiutata e allontanata dal suo cuore e credo che non riuscirò più a guardarlo in faccia.
E mi fa rabbia. Tanta. Soprattutto quando ripenso alle sue parole, al suo sguardo così pieno di rabbia nei miei confronti.
Credo che questa sera saranno proprio nei guai quei ragazzi che hanno preso parte alla rissa. In fondo, spero che i King ricevano una punizione esemplare.
Adesso però mi chiedo quanto tempo passerà prima che si sappia la verità. Prima di ritrovarmi nel ciclone, ancora sulla bocca di tutti.
Sento bussare alla porta. Chiudo il getto caldo dell'acqua. La condensa sale verso il tetto riempendo ogni superficie riflettente.
«Sto facendo la doccia», urlo per farmi sentire uscendo dalla vasca dopo avere tirato l'asciugamano che avvolgo intorno al mio corpo umido.
«Erin, tra poco ci sarà la riunione. Ti aspetto di sotto, non possiamo fare tardi.»
«Ok, arrivo!»
Pettino velocemente i capelli asciugandoli leggermente e poi legandoli. Indosso un maglione nero, un paio di jeans a vita alta. Sopra a questi il giubbotto di pelle e infilo le scarpe da ginnastica. Sulle ciglia metto giusto un po' di mascara per non apparire un mostriciattolo appena uscito dalla doccia.
Sentendomi presentabile e forse anche pronta ad assistere a questa riunione, scendo al piano di sotto trovando mio padre seduto sul divano.
Indossa un abito elegante grigio scuro. Riflette su qualcosa ma non appena sente i miei passi, voltandosi mi guarda per una manciata di secondi che a me sembrano durare troppo.
Sento il suo sguardo criticare la scelta degli indumenti, gli unici decenti che io abbia attualmente dentro l'armadio, ma non commenta. Alzandosi si incammina fuori senza aprire bocca e lasciare uscire i pensieri che immagino e anche bene; poi entra in auto.
Spengo le luci del soggiorno e quelle del corridoio, chiudo la porta alle mie spalle raggiungendolo.
Una volta in auto, allaccio subito la cintura per evitare che me lo dica, lasciandomi avvolgere dal calore presente dentro l'abitacolo e dal silenzio che all'improvviso mi sembra asfissiante.
Mi volto infatti per capire dalla sua espressione il suo umore. Lui abbassa il volume dello stereo. La voce del giornalista si affievolisce e dentro l'abitacolo torna a farsi vivo il silenzio.
«Eri in piazza oggi?»
La sua domanda è diretta. Non ha chiesto se sono uscita ha chiesto se ero lì.
«Si», decido di essere sincera. Non ho niente da nascondere.
Inserisce la freccia poco prima di svoltare a destra superando un piccolissimo supermercato con le serrande abbassate. Il paesino sembra abbandonato.
«Hai visto quello che è successo?»
Mi sento sottoposta ad un interrogatorio. Stringo il pugno sulle ginocchia. Se lo nota non me ne curo. «Si», ripeto.
Mi guarda di sfuggita continuando a guidare moderatamente.
Ci spostiamo fuori dal paesino, in una zona isolata circondata da alberi e distese di terra.
Di tanto in tanto noto dei cartelli stradali mentre continuo a cercare delle distrazioni che attualmente non sembrano esserci.
«Chi ha iniziato?»
Sposto la mia attenzione fuori dal finestrino guardando le distese di terra che mi trovo di fianco. Il buio a riempirle di ombre e gli occhi rossi degli animali notturni al passaggio dei fari dell'auto. Spaventati dei leprotti scappano nascondendosi dentro gli arbusti.
«Per quale ragione dovrei fare la spia? Tanto sai già chi accuseranno. Non che sia una grossa novità per voi. Nessuno tocca di certo "I King".»
Incrocio le braccia contrariata. Mi sento come un fiume in piena trattenuto dagli argini.
«Non è fare la spia. Stai parlando con tuo padre, non con un poliziotto. Voglio solo sapere se qualcuno ti ha fatto del male.»
Ripenso subito a Mason e stringo maggiormente il pugno con cui vorrei tanto colpirlo in faccia per vendicarmi. Ma non è così che ci si difende, mi dico.
«No, so badare a me stessa.»
Picchia il palmo sul volante. Appare irritato dal mio atteggiamento. «Erin, smettila per un momento di essere arrabbiata con me e di fingerti forte e parlami, dimmi chi è stato e se qualcuno ha osato toccarti o dirti qualcosa di spiacevole.»
Perché è così agitato? Qualcuno gli ha riferito qualcosa e adesso ha bisogno di confrontare i fatti?
Corrugo la fronte riflettendo un momento di troppo in cui lui si innervosisce maggiormente. «Erin!», cantilena.
Alzo il viso. «Nessuno mi ha fatto niente, non lo avrei permesso in ogni caso. Sono stata trattata male solo per avere espresso la mia opinione che, a quanto pare non è bene accetta da queste parti. Perché la verità brucia sempre più di una ferita aperta causata da una bugia.»
Sospira. «Hanno iniziato quei ragazzi della radura o sono stati i tuoi amici?»
«Amici? Quali amici? Quelli che ti pugnalano alle spalle lasciandoti da sola nel bosco o quelli che ti sputano in faccia che tua madre è una puttana?» alzo il tono e quando ci fermiamo esco immediatamente dall'auto respirando più che a fatica.
La gola mi si stringe e allargo il colletto del maglione dopo avere aperto il giubbotto di pelle. Annaspo guardandomi spaventata attorno, non comprendendo la ragione di questa reazione da parte del mio corpo che sembra senza controllo e sul punto di esplodere.
Sento caldo poi freddo. Il mondo si confonde intorno a me e non riesco proprio a respirare. Mi appoggio allo sportello con entrambe le mani per reggermi a qualcosa di solido. Stringo la presa sbiancando le nocche e ansimo come se stessi avendo un colpo d'asma.
Papà si avvicina più che in fretta. «È un attacco di panico. Prova a respirare lentamente.»
Drizzo immediatamente la schiena quando prova a fare il dottore con me. «No, non lo è. Sto bene», mento deglutendo a fatica, ricacciando tutto dentro, da dove è venuto.
Adesso che siamo faccia a faccia, non resisto. «So che non mi credi ma non hanno mai iniziato gli Scorpions.»
Papà sembra avere ricevuto la risposta ad ogni suo dubbio. «Chi ha fracassato quelle vetrine?», si fa attento.
«Due ragazzi ma solo perché hanno litigato dentro il bar e sono usciti dalla vetrina anziché dalla porta dopo un paio di spintoni e poi... poi hanno lanciato di proposito dei sassi sulle vetrine, raccolti da una parte della pavimentazione da aggiustare della piazza, solo per farli scappare. Perché erano in quantità numerica inferiore ed erano impreparati. L'hanno anche fatto perché sapevano che in quel modo uno degli adulti avrebbe chiamato la polizia e che avrebbero incolpato gli Scorpions. In fondo basta vedere qualcuno vestito di nero o con i capelli colorati per urlare o scansarsi.»
Non riesco a liberarmi di ogni singolo peso tenuto dentro nel corso di queste lunghe ore passate, in qualche modo averne parlato però mi aiuta.
Papà posa una mano sulla mia schiena regalandomi un certo conforto, una straordinaria sicurezza trasmessa dai suoi occhi sempre accesi di luce e di speranza; incitandomi a seguirlo, ci dirigiamo verso un magazzino apparentemente abbandonato ma che, quando entriamo, è pieno zeppo di persone ad attenderci.
Quando apre la porta scorrevole, tutti si voltano.
Cammino dietro di lui sentendo molti dei commenti che fanno al nostro passaggio nascondendoli in bisbigli e occhiate. Vorrei mettermi a rispondere ad ognuno di loro ma adesso devo comportarmi bene, continuo a ripeterlo come un mantra nella speranza di non crollare cedendo alla tentazione mettendo in ridicolo mio padre.
«Sediamoci qui», mi dice prendendo posto in seconda fila.
Non è mai stato un uomo a cui piacciono le chiacchiere inutili. Lui è sempre passato ai fatti, quelli concreti.
Come quando mia madre si è fatta beccare con il suo amante. Non ha esitato e l'ha buttata fuori di casa facendole trovare le valigie dietro la porta. Non ha neanche voluto ascoltare i suoi piagnistei, le sue urla, le sue offese. Ha risposto in maniera decisa chiudendo il rapporto senza troppe cerimonie.
Una cosa sola non aveva calcolato quel giorno: c'ero io nel mezzo.
Forse questo sarà per sempre il suo più grande rimpianto ma attualmente, vederlo nelle vesti di sindaco mi rende orgogliosa di lui anche se è strano perché mi fa capire di essermi persa un pezzo significativo della sua vita.
Liscia la giacca apparentemente calmo salendo sulla piattaforma di legno che funge da palco, mettendosi al centro dei due banchi di legno che sono stati sistemati come se dovesse esserci un dibattito.
Accende il microfono per farsi sentire da chi siede nelle ultime file di questo enorme magazzino non pavimentato, pieno di polvere, erba secca, ragnatele create in alto. C'è odore di fieno e muffa ma a nessuno sembra importare.
«Buona sera a tutti. A breve, avrà inizio la riunione di emergenza richiesta a gran voce dai cittadini stessi, per parlare degli ultimi eventi accaduti e che, con mio enorme rammarico, hanno causato gravi danni fisici e materiali ad alcuni cittadini.»
Si levano subito delle voci di diniego, di disprezzo da chi non era presente.
Vorrei tanto prendere parola, ma rimango seduta a debita distanza, ad implodere.
A pochi passi, seduti in prima fila alla mia destra oltre il corridoio, ci sono tutti i King.
Impossibile non riconoscerli. Eleganti, posati.
Harper, nel suo bel tubino color cipria continua a guardarmi richiamando la mia attenzione. Sento proprio addosso i suoi occhi da arpia ma non la degno minimamente di uno sguardo.
Anche Dana lo fa. Lei se ne sta tra Davis e sua madre. Indossa un vestitino floreale sotto una giacca elegante. I suoi capelli sono legati ed è truccata in maniera appariscente.
Entrambe hanno scelto da che parte stare ed io non voglio essere la marionetta o la nuova bambola da usare nel loro gruppo pieno di serpenti.
Vagando tra la folla, vedo anche Ephram. Mi rivolge un cenno di saluto ed io ricambio alzando la mano, notando bene come mi fissa sua madre posandogli una mano sul braccio, dicendogli qualcosa all'orecchio arrabbiata.
Torno a concentrarmi su mio padre. Scende dal palco continuando a parlare animatamente con alcuni consiglieri e dipendenti. Dopo un momento, accorgendosi di avermi lasciata sola in una fila dove nessuno si siederà mai, si avvicina sedendosi accanto a me.
Stropiccia gli occhi più che stanco. «Tutto ok?»
«Si», replico tranquilla chiedendomi il perché di una simile domanda.
Serra la mascella. «Sicura? Prima stavi per avere un attacco di panico. Non vorrei che questa riunione ti mettesse addosso una forte pressione. Se hai bisogno di uscire o di tornare a casa avvisami. Cercherò di sbrigarmi.»
Sto già scrollando la testa e via anche i pensieri che si annidano nei meandri più oscuri e inesplorati della mia mente.
«No, sto bene. Che cosa stiamo aspettando?»
Gli occhi di papà si posano alle mie spalle. «Non cosa, chi», mi corregge.
Tutti si voltano facendo improvvisamente silenzio quando le porte del magazzino si aprono.
Gli Scorpions sono un gruppo parecchio numeroso. Tra loro: molte famiglie.
«Non pensavo che accogliessero anche gli adulti», dico ad alta voce.
«Gli Scorpions non sono solo dei ragazzi, Erin. Sono anche una famiglia. Ecco perché questa sera è importante che tu stia attenta e non ti cacci nei guai.»
Li guardo sbalordita non rispondendo a mio padre mentre avanzano verso i loro posti a sedere che si trovano alle nostre spalle.
Tra di loro c'è persino una donna anziana dotata di bandana con un teschio stampato sul tessuto, cerchi alle orecchie, sigaretta in bocca e giubbotto con l'immagine dello scorpione che porta con orgoglio.
Papà drizza la schiena alla vista di Shannon che al contrario sta fissando in cagnesco Mason pronto al contrattacco.
Accanto a Shannon, un ragazzo. I suoi capelli sono paragonabili alla neve quando attecchisce al suolo per la prima volta ed è così pulita da fare male agli occhi ma allo stesso tempo a meravigliare, ad ammaliare chiunque con la sua naturale bellezza.
Bianchi, scompigliati e corti ai lati. Un lobo dilatato con un cerchio nero intorno e l'immagine di uno scorpione al centro del vetro.
A differenza dei suoi amici indossa un abito elegante pur rimanendo nello stile del gruppo. Il nero in netto contrasto con la sua pelle e i suoi capelli.
Si volta fissando con i suoi occhi del colore del ghiaccio ogni persona. Usa uno sguardo critico, carico di disprezzo.
È come "Jack Frost" ma nella versione reale e parecchio sensuale, soprattutto spietata.
I suoi occhi attraversano come bufera le varie file fino a posarsi su di me.
Distolgo un momento il mio sentendomi travolta, letteralmente. Spalanco la bocca incredula tappandola con la mano, perché non appena scavo tra i miei ricordi mi si para davanti un solo nome attribuito a quegli occhi. Non a quei capelli tinti ma agli occhi che rivedo spesso nei miei incubi.
Non è possibile. Mi sembra di essere ritornata indietro, risucchiata in un passato privo di luce dove nel buio avevo costruito la mia casa adesso spazzata via da uno sguardo.
Conosco quegli occhi. Non si dimenticano di certo due iridi particolari e profonde come le sue, così fredde da provocare una catastrofe dentro e fuori di me.
Nonostante sia passato un sacco di tempo, sono rimasti gli stessi che ho conosciuto, che mi hanno fatto infuriare e atterrire.
Fisicamente siamo cambiati entrambi. Ma non possiamo fingere di non conoscerci o che non sia successo niente tra di noi.
No, non può essere vero. Lui non può essere ancora qui. Non può davvero essere... reale.
Mi destabilizza e mi fa rabbia trovarlo a pochi passi da me.
Si avvicina a mio padre che si è alzato e spostato al centro della fila di sedie e persone senza che me ne accorgessi.
Parla con lui disinvolto, aggiustandosi i polsini della camicia e poi guardando l'orologio al polso come se fosse scocciato di essere in mezzo a tutte queste persone.
Si volta girando la testa nella mia direzione come richiamato da qualcosa. Ci guardiamo di sfuggita proprio come due estranei.
Non ci salutiamo. Non lo abbiamo mai fatto. Ci siamo solo distrutti a vicenda forse per paura di essere simili. Forse per paura di volerci bene, di quel bene che non puoi spiegare ad alta voce e di cui ti vergogni profondamente perché potrebbe annientarti, distruggerti il cuore.
Papà sale sul palco ignaro della tormenta che sto attraversando alla vista del mio acerrimo nemico d'infanzia.
Shannon e Mason, richiamati da lui, salgono sul palco ma lui rimane lì, in piedi ad osservarsi intorno prima di spostarsi con eleganza nella mia direzione e sedersi nell'ultima sedia libera della prima fila.
Nessuno si scansa quando lo fa.
Ho bisogno d'aria. Guardo la porta. Appare lontana. Troppo. Mi agito.
«Buona sera», saluta di nuovo mio padre. «Come sapete oggi nella nostra piazza, dei vandali hanno frantumato le vetrine dei negozi e creato panico e paura tra i ragazzi e le persone presenti», fissa la platea con rimprovero.
«Andrò dritto al dunque. Inutile nascondersi, sappiamo bene che da tempo in questo paese si sono formate delle fazioni. Alcune esistevano già mentre altre sono nate con il chiaro intento di spezzare l'equilibrio che avevamo.»
Si ferma un momento di proposito. Crea una certa suspence.
«Pertanto, adesso permetterò a questi due ragazzi di spiegarsi poi, con il capo della polizia, il signor Bolton, decideremo insieme quale sia la giusta punizione da dare per fare in modo che ciò non avvenga mai più.»
Iniziano i primi dissensi. Ad alzarsi, i genitori di Mason e gli amici di questi. «I King non hanno fatto niente, perché dovrebbero essere puniti?»
Papà mette i palmi in avanti chiedendo loro di fare silenzio.
«Mi avete eletto sindaco affinché fossi imparziale e pertanto, parlando con i miei consiglieri, indagando a fondo, ho preso la mia decisione e penso possa essere d'esempio a tutti. Ascoltatemi: la guerra non è fatta solo di vincitori ma di vinti che chiedono vendetta e allora si forma un circolo vizioso. Da anni ormai continuiamo a fare finta di niente. Adesso dobbiamo dire basta! Bisogna applicare una punizione esemplare per tutti senza distinzione!»
Le famiglie dei King si alzano di nuovo urlando addosso a mio padre ma, ancora una volta lui li mette a tacere. «Mi dispiace ma questa volta i fatti mi sono stati raccontati da più persone e nella stessa versione quindi, prima del mio giudizio, lascerò spiegare a questi due ragazzi la ragione del loro orribile comportamento e aspetterò le loro scuse rivolte a tutti. Se ciò non avverrà procederò in maniera diversa e non accetterò altri comportamenti di questo tipo tra i ragazzi nel mio paese.»
Scende dal palco venendosi a sedere accanto a me. Incrocia le braccia guardandoli più che attento.
Che cosa ha in mente?
«Staremo qui fino a quando non chiederete scusa», li provoca.
Shannon guarda in cagnesco Mason che, a sua volta ricambia.
Il primo a parlare è proprio lui. Indica Shannon come si indica un mostro.
Lo faceva anche da piccolo. Era costantemente pronto ad evitare le punizioni facendole subire a qualcun altro.
Spero vivamente che il karma oggi faccia il suo lavoro.
«È stato lui ad interrompere i nostri festeggiamenti. Avevamo il permesso. Il nostro sindaco non può negarlo. Ma questi... abominevoli esseri hanno comunque disturbato la nostra serata creando il terrore quando ci hanno attaccato in massa...»
Mi alzo. Mio padre prova a fermarmi ma non ci riesce. In realtà non ci riesco neanche io.
«Ho una domanda», alzo il tono innervosita dal loro atteggiamento.
Basterebbe chiedere scusa e invece cercano solo di addossare la colpa agli altri.
Tutti smettono di parlare quando mi sollevo.
Mason dilata le narici. «Forza», mi incita minacciandomi silenziosamente.
Non ho paura di lui. «Perché sei scappato se avevi il permesso firmato dal sindaco?»
Alcuni ragazzi iniziano ad imitare i polli e qualcuno ride prendendolo in giro.
Mi siedo attendendo più che paziente una risposta.
Mason arrossisce. «Perché...»
«Perché è un codardo!» esplode Shannon. «Perché quella sera ci ha minacciato con delle mazze e poi ha chiamato la polizia pur sapendo che stava invadendo una nostra area quella che, mio caro sindaco, avevamo segnato nella mappa per evitare che ciò accadesse.»
Tutti urlano iniziando ad offendersi.
Papà si alza avanzando verso di loro parecchio innervosito e forse anche stanco di dovere rimediare al posto loro.
«Si, è vero. Potrei anche assumermi questa responsabilità. Ma dovete chiedere scusa e ancora non lo avete fatto. Magari prima di firmare il permesso avrei dovuto consultare la mappa ma ciò non toglie che gli Scorpions abbiano agito con la violenza anziché...»
«Hanno iniziato loro minacciandoci con il fuoco e poi con le mazze che avevano portato premeditando tutto quanto. Noi ci siamo solo difesi e anche bene. E quando la polizia è arrivata, ce ne siamo andati perché non volevano altre grane.»
«Ve ne siete andati perché siete solo dei codardi privi di rispetto. Siete stati voi a terrorizzare il paese con i vostri modi di fare, con i vostri indumenti e con la vostra idea assurda di essere originali. Siete solo pazzi.»
Shannon gli si avvicina e papà si mette nel mezzo. Li trattiene con i palmi sui loro petti scossi dall'affanno.
«E di oggi invece che cosa mi dite? Chi ha iniziato, eh?»
Guarda prima Mason poi Shannon. I due si però continuano solo a minacciarsi a vicenda silenziosamente. Poi però Shannon si allontana di un passo.
«Non posso più camminare nel mio paese. Non posso più andare a fare la spesa per mia madre che come sapete è malata. Non posso sedermi al bar e non posso fermarmi al parco. Questo perché degli stupidi ragazzini ricchi alimentati dalle storie dei loro genitori, giocano a fare gli adulti mettendo in testa alla gente pensieri e paranoie inesistenti.»
Mi alzo ancora. Voglio che tutti sappiano davvero come sono andate le cose.
«Dove stavi andando oggi?»
Shannon mi guarda intensamente per la prima volta. Non c'è rancore nei suoi occhi. Solo stanchezza.
«A prendere una birra, a stare al bar con i miei amici dopo avere passato una giornata di lavoro che, come ben sapete è in un'officina.»
Passa la mano sul viso. «Mio padre è rispettato qui in paese!», dice indicandolo. Il signore annuisce guardandolo con affetto.
«Correte da lui quando avete bisogno di aiuto con le vostre auto. Non ha mai cacciato nessuno. Non ha mai fatto distinzioni sul lavoro o solo perché appartenete ai King», urla di proposito. «Ma quando vedete questo giubbotto o quando notate qualcuno con i capelli colorati», dice indicandomi. Scuote la testa accompagnando i gesti delle mani che si muovono frenetiche nell'aria.
«Iniziate a bisbigliare, a parlare male, a trattare male, ad escogitare piani per mandarci via. Ci prendete in giro, ci escludete, ci allontanate come se avessimo la lebbra. Ci additate perché non sia mai che un ragazzo di buona famiglia sia cleptomane o un razzista.
Dovremmo essere tutti uguali. Invece siamo costretti a segnare su una mappa i posti in cui possiamo stare. Non vi vergognate neanche un po'?»
Mason soffia dal naso. «Siete solo dei vandali! In quanto tali dovete vivere nel vostro ambiente e non mescolarvi tra di noi.»
Tutti annuiscono rispondendo un "si" che fa tremare il magazzino.
Scuoto la testa incredula, indignata, disgustata da così tanta mancanza di coraggio, di rispetto.
«Rubate, iniziate delle risse per qualsiasi cosa, fate del male alle persone e fracassate delle vetrine. Che cosa deve succedere ancora prima che lei, signor sindaco, mandi queste persone via dal nostro paese?»
Gli Scorpions si alzano all'unisono più che minacciosi.
Mason allora ghigna. Ha ottenuto quello che voleva, mi dico.
«Calmatevi!» urla papà. «Non è questo il modo di conversare e di giustificarsi.»
Dopo una breve pausa, fissa alla sua sinistra. «Mason, chi è stato a rompere le vetrine?»
«Shannon!», risponde senza indugio.
Papà contrae la mascella. «Shannon, chi è stato a rompere le vetrine?»
Shannon non si scompone. «C'è stata una rissa al bar. È iniziato da lì ma io ero al centro della piazza con il re dei polli quando mi ha fermato solo perché stavo andando a sedermi con i miei amici nel nostro ritrovo.»
Alcuni ragazzi emettono di nuovo il verso dei polli e gli Scorpions, persino gli adulti, scoppiano a ridere.
Mason stringe il pugno. «Non sarebbe successo niente se non fossi arrivato. Come non sarebbe successo neanche questo», indica la sua faccia, il lieve segno sullo zigomo.
Guarda mio padre. «Hanno voluto regolare i conti subito dopo.»
Ghigno. «Quindi stai ammettendo di essere stato tu a rompere le vetrine e che gli Scorpions sono tornati solo per regolare i conti?»
Arrossisce ormai intuendo di essere in trappola. «Sta zitta lurida figlia di...»
Dentro il magazzino si innalzano le più svariate delle espressioni.
Mio padre che ha già strattonato Mason interrompendolo prima che riuscisse a concludere la frase. Ma tutti hanno immaginato, tutti hanno capito.
Non abbasso la testa. «È questa l'educazione che i tuoi ti hanno impartito?», lo provoco.
I suoi genitori scuotono la testa scusandosi. Soprattutto sua madre più che mortificata.
Mason apre la bocca pronto a rispondere.
«Adesso basta!» urla qualcuno.
Una voce che mi è familiare ed estranea allo stesso tempo.
Lo vedo muoversi con grazia verso il palco. Sale agilmente raggiungendo mio padre ma si rivolge a tutti.
«Continuate a fare finta di non vedere. È inutile parlare. Sappiamo già come andranno le cose e non risolveremo un bel niente in questo modo. Proprio come le altre volte nessuno chiederà scusa. È inutile provarci.»
Usa un tono carico di rimprovero che va a mescolarsi al disprezzo.
«Chiederò io scusa per avere fatto parte di questo orribile paese in cui il pregiudizio e la malafede aleggia persino nell'aria. Se ne sente la puzza quando ci metti piede notando come ti guardano, come bisbigliano alle tue spalle e come ti trattano. Mi vergogno e vi chiedo scusa se non mi sono mai sentito un vero cittadino pur essendo nipote di uno dei fondatori.»
Inizio ad agitarmi. Non so perché, improvvisamente mi sento di troppo qui dentro.
«E che cosa ci consigli di fare, fenomeno!»
Gli scocca un'occhiata brutale. «Fenomeno?» scuote la testa indicandolo. «Ecco perché il mondo non andrà mai avanti. Non sapete ascoltare e continuate a comportarvi come dei bambini!» sputa fuori acidamente ogni parola.
Cerco tra gli Scorpions il ragazzo che mi ha dato il passaggio ma da questo posto a sedere non riesco a trovarlo, pertanto mi alzo un momento mettendomi all'angolo, godendomi le occhiate cattive da parte dei King e dei comuni cittadini che ormai mi vedono come un mostro che ha osato parlare e mettersi dalla parte degli Scorpions.
«Poi vi chiedete perché vi disprezziamo», continua.
Mason interviene. «Siete solo dei pazzi. Non avete regole e vi trascinate dietro i detriti di ogni vostra sconfitta, di ogni vostra vittima.»
«Ancora con questa storia? È stato un incidente che voi avete affibbiato a noi. Avete iniziato proprio voi a dare la caccia a chiunque voleva vivere senza vincoli e senza gruppo. Mio padre è andato via anche per questo...»
Non riesco proprio a capire. Non mi è chiaro il perché di una così tanta furia che va a mescolarsi al disgusto. Sono furiosa e delusa. Così tanto da uccidermi dentro. Così tanto da alzarmi e urlare abbastanza forte da sentire le corde vocali tendersi e sul punto di spezzarsi.
«Basta!», avanzo verso il palco pestando i piedi sul terreno.
Tutti si azzittiscono nell'immediato sorpresi della mia reazione.
«Potete smettere per un attimo di comportarvi come dei bambini? Qui non si tratta di chi fa la pipì più lontano. Siamo persone non animali. Siamo uguali davanti alla legge e quando sbagliamo dobbiamo avere le palle di ammettere l'errore. Davvero non vi rendete conto del male che continuate a farvi reciprocamente? Basta un semplice: "mi dispiace". Una stretta di mano. Dobbiamo per forza continuare ad assistere a questo teatrino?»
«Sei solo una sciocca a pensare che questi mostri riuscirebbero a vivere senza provocare danni.»
«Ti sbagli! Sono i tuoi pregiudizi e quelli della gente ad alimentare un odio che non ha radici. Non ha fondamenta. A te non darebbe fastidio essere costantemente chiamato: "mostro" o essere ritenuto: "invisibile"? Non ti toccherebbe neanche un po' essere additato per quello che indossi? Non ti farebbe arrabbiare essere etichettato come un prodotto in scatola? Non ti farebbe sentire a disagio essere guardato come un errore? Mettiti un po' nei panni degli altri e una volta tanto smettila di credere di avere sempre ragione e smettila di parlare per dare aria ai polmoni perché quando lo fai gli alberi soffrono perché sei velenoso!»
«E tu che ne sai? Sei solo una piccola ragazzina con una madre che per vivere...»
Il ragazzo di cui non oso neanche pronunciare il nome dentro la mia mente per non renderlo reale: lo colpisce.
Mason ride. «Eccolo! Ecco a voi: Kay Mikaelson!»
Scuoto la testa. «Sei proprio una delusione per il genere umano Mason.»
«E tu continui a crederti migliore di noi solo perché non hai vissuto in questo posto, ma non lo sei. Sei solo...»
Lo colpisco con tutta la forza di cui dispongo rompendogli il naso.
Si sente proprio il crac provocato dalle ossa del setto nasale che vanno a spezzarsi.
Urla e urlano anche alcuni dei presenti alla vista del sangue, compresi i suoi genitori.
«Erin!»
Mio padre interviene controllando il flusso di sangue che gli esce dal naso. «È rotto, devo metterlo in sesto. Ti farà male», lo avverte e senza dargli il tempo glielo aggiusta.
Mason urla forte. Alcuni esprimono disgusto altri ridono.
Scrollo la mano che inizia a pulsare e a gonfiarsi. «Scusa papà ma ci sono volte in cui devi difenderti dagli stronzi.»
Mason ringhia reagendo, provando ad attaccarmi davanti a mio padre che cade a terra ma Shannon lo ferma avventandoglisi contro, bloccandolo.
«È una ragazza, cazzo!»
Davanti a me adesso c'è proprio lui, Kay. Non appena noto il suo tatuaggio sul collo, mi schianto al suolo.
Lui solleva il labbro accorgendosi della mia reazione. Ha capito.
«Ci si rivede piccola sirenetta.»
Quando ci guardiamo per davvero: cambia tutto. Il mondo inizia a crollare intorno a me perché i suoi occhi, con la loro forza straordinaria, mi abbattono completamente.
Ci riesce ancora, a distanza di anni. Riesce a sconfiggermi senza neanche toccarmi o parlarmi.
Mi ci vuole qualche istante per tornare lucida. Mi avvicino rabbiosa. «Tu...»
Provo a colpirlo ma blocca il mio pugno. Allora ricordando le lezioni gli mollo un calcio in mezzo alle gambe facendolo piegare in due. «Questo è per quel giorno», sbotto mettendo in ordine i capelli.
«Signori, signore, i vostri eroi! Ve li meritate», esplodo rabbiosamente uscendo in fretta dal magazzino sentendo esplodere il caos.
Non appena metto piede fuori, quando l'aria fredda frusta sul mio viso accaldato, ho un violento attacco di panico.
Barcollo visibilmente ritrovandomi a terra senza neanche accorgermi di essere caduta.
Affondo le mani sulla terra premendo sempre più a fondo fino a sentire le pietre conficcarsi sotto le unghie.
Tremo strizzando gli occhi poi boccheggio. Tossisco un paio di volte prima di tornare a vedere limpidamente ogni cosa.
Il passato non è vero che è solo passato. A volte diventa presente proprio perché ti rimane dentro, lo senti addosso e ti fa stare male quando ritorna con un ricordo, un'immagine, un volto.
Come quello della persona che odio profondamente perché mi ha rovinato ogni giorno a scuola, ogni mio momento tranquillo arrivando con il suo odio, distruggendomi con i suoi gesti, con le sue trovate.
È vero, sono passati anni ma il rancore non ha mai smesso di esistere dentro di me. Perché ci sono ferite che non possono rimarginarsi, rimangono aperte con il rischio di infettarsi.
Inspiro ed espiro provando ad alzarmi.
Sento dei passi alle mie spalle poi due braccia sollevarmi e la sua faccia davanti alla mia a destabilizzarmi.
«Erin, stai bene?»
Ancora una volta precipito al suolo schiantandomi, rimanendo senza fiato alla vista dei suoi terribili occhi.
I ricordi mi travolgono. Il peggiore, quello che continua a fare male mi si para davanti. Non l'ho dimenticato. Non ho cancellato di dosso ogni sensazione generata dai suoi gesti. Continuerà a tormentarmi ancora quel brutto momento e il rancore mi farà perdere la testa, lo sento. Proprio come sento il bisogno di creare un certo distacco tra me e lui che è come veleno.
Lo spingo. «Vattene se non vuoi subire un altro colpo.»
Non sapendo che cosa guardare mi concentro sul cielo alzando su di esso gli occhi che bruciano come tizzoni ardenti.
Non demorde di certo. Posa una mano sulla mia spalla stringendola. In questo modo mi costringe a voltarmi. Abbassa il viso ma non riesco più a guardarlo in faccia perché l'odio che provo nei suoi confronti è così tanto da destabilizzarmi.
«Hai un bel gancio destro e un brutto carattere.»
«Lezioni di autodifesa. Che cosa vuoi?»
Lecca le labbra reclinando leggermente la testa. «Hai un debito con me, ricordi?»
Scrollo la sua mano come se fosse un insetto. «Non credo di essere dell'umore adatto in questo momento per sdebitarmi.»
Mi volto ancora per non avere voglia di picchiarlo. Stringo i pugni in vita poi massaggio la mano con cui ho colpito quel viscido. Fa parecchio male ma non è paragonabile al dolore che sento diramarsi ovunque dopo avere scoperto che il tizio misterioso non è altro che una vecchia conoscenza.
Mi si posiziona davanti non percependo il rischio che corre. «Potrei chiederti di riprenderti così poi potrò avere quello che mi serve», mi stuzzica.
Lo ha sempre fatto. Da piccolo era davvero il figlio del demonio in persona. Adesso penso sia proprio lui il demonio.
Nego. «Non sei nella condizione di fare una simile richiesta.»
Solleva il labbro all'angolo. «Ah no?», incrocia le braccia guardandomi con sfida.
Scuoto la testa. «Lasciami in pace.»
Mi incammino verso il parcheggio decisa a creare un certo distacco tra di noi.
L'aria si è caricata elettricamente di energia negativa. Mi rende nervosa, inquieta.
Afferra la mano, quella che mi fa male, stringendola di proposito.
Non urlo per non dargli la soddisfazione e quando mi volto, pronta ad attaccarlo, rimango paralizzata perché mi attira in modo rude subito a sé.
Con concentrazione dedica la sua attenzione alla mia mano. Apre il palmo poi lo gira passando sopra le sue dita apparentemente morbide e calde.
Mi provoca un dolore persistente ma stringo i denti girando il viso.
«Chiudi il pugno e riaprilo», ordina.
Faccio come dice.
«Non è rotta ma avrai bisogno di un po' di ghiaccio per farla sgonfiare.»
Tiro indietro la mano. «A questo potevo arrivarci anch'io.»
Mi soffia in faccia e lo spingo. Non ha mai tolto questo vizio.
Ride. «Perché non urli o piangi come una ragazzina?»
Prova a stringermi di proposito la mano e lo guardo minacciosa mettendomi in posizione d'attacco.
Quando le persone si abituano agli ostacoli superando costantemente il dolore, non si lascino più scalfire da niente e nessuno. Perché quando cadi di continuo, impari a rialzarti da solo, a dare il giusto peso alle cose, alle persone.
Non ti arrabbi più. Non combatti più. Non ti illudi. Ti spegni un po' dentro ma vai avanti lo stesso, mostrando al mondo la tua forte corazza.
Alza le mani. «Non provarci nemmeno!», ringhia guardandomi male.
Faccio una finta e si mette in posizione di difesa.
Sono colpita. «Hai imparato qualcosa di utile oltre a rompere le palle!»
Continua a fissarmi male credendo di spaventarmi. «Anche tu sei cresciuta, parecchio. Sicura di non essere un maschio?»
Stringo le labbra poi rido negando. «A quanto pare no. Ma posso avere più palle di te e di tutti i tuoi amici messi insieme», facendogli una linguaccia continuo a camminare lungo il viale sterrato.
Dal magazzino si sentono delle voci ma non me ne curo. Non è più affar mio.
Sento i suoi passi vicino. «Dove vai?»
«A casa», replico tranquilla cercando di ricordare da che parte siamo arrivati.
Kay mi afferra il braccio stringendolo abbastanza forte da farmi addormentare i muscoli.
«Ti accompagno io», dice risoluto trascinandomi verso un'auto.
Estrae dalla tasca del completo un telecomando. «Salta su, scheggia.»
Sospiro e intuendo di non avere scampo, entro in auto. «Sei Bruce Wayne o Batman in questo momento?»
Inarca un sopracciglio avviando il motore dell'auto apparentemente nuova. «Sono Kay Mikaelson!»
«Caius», lo correggo.
Mi guarda male continuando a guidare.
Sento la pelle formicolare e sposto la mia attenzione sulla strada.
Il buio è così fitto da suscitarmi uno strano senso di inquietudine.
Kay accende il riscaldamento credendo che io senta freddo poi anche lo stereo abbassando velocemente il volume.
«Chi ti ha insegnato a difenderti?»
«L'amico dell'ex compagno di mia madre.»
Ripenso alle prime lezioni prese, agli ematomi che comparivano il giorno dopo e che nascondevo per paura di essere fraintesa da nonna, al rischio di perdere qualche dente ma anche alle rivincite e alle vittorie.
«E ad essere così acida invece?»
Gli mollo un colpo al petto con la mano sinistra. Lo sente ma non si scompone. Noto però che sorride, lo fa mostrando i canini leggermente affilati e quei denti di sotto che non sono perfetti ma che lo rendono grazioso da vedere.
Che diavolo sto pensando?
Evito di fissarlo ancora aprendo il finestrino per qualche istante, respirando l'aria fresca della notte ormai alle porte.
«E questo amico...», interrompe i miei pensieri. Per poco non urlo.
Cambia marcia rallentando. «Era giovane o un quarantenne maniaco?»
Ripenso a quei giorni. Risento addosso quei colpi. Mi abbraccio. «Giovane», il che è vero. Kris non era di certo un ragazzino ma neanche un uomo.
«E quando ti prendeva in giro lo colpivi?»
Mi volto un momento. Il suo viso attraversato da qualche ombra quando passiamo sotto i fari.
«Perché doveva prendermi in giro?»
Passa l'indice sul labbro standosene con il braccio sul bordo dello sportello. «Perché sei sempre stata fuori di testa?», fa una faccia buffa.
«No, lo colpivo solo quando ci provava con me.»
Per qualche minuto non parla. Sta pianificando qualcosa. È così evidente da suscitarmi una certa ansia che esce fuori dai miei innumerevoli tic nervosi che, non uscivano allo scoperto ormai da tempo.
Mi rendo conto di non essere mai andata avanti veramente. Mi sono sempre nascosta dietro la convinzione di essere forte, di potercela fare ad uscirne nonostante le ferite riportate dopo l'ennesima delusione. Di potere andare avanti con i graffi nel cuore e il sorriso stampato in faccia. Mi sono illusa per tanto tempo di stare bene. E l'ho fatto con così tanta convinzione che adesso mi sento presa in giro da me stessa.
Arriviamo davanti casa senza avere ancora aperto la bocca. Non credo di avere trattenuto così tanto il fiato come adesso.
«Grazie», mi affretto a dire prima che le parole possano inciampare dentro la mia mente attaccandosi al palato.
Non capisco perché adesso mi blocca sapere di avere passato qualche strano momento insieme a lui che è sempre stato pronto a rendermi le cose un vero inferno.
Eravamo piccoli, è vero, eppure penso sempre di non avere passato dei bei momenti proprio a causa di ogni trauma subito a causa sua.
Perché i ricordi te li trascini dietro come zavorre.
Risponde con un cenno della testa senza neanche guardarmi in faccia.
Allora apro la portiera. Dalla bocca non esce più niente, pertanto mi affretto ad uscire dall'auto. Corro in casa chiudendo la porta alle mie spalle e a gran velocità salgo in camera dove mi rifugio nella speranza di potere metabolizzare tutto questo enorme casino che è ormai la mia vita.
Tolgo il giubbotto appendendolo alla gruccia. In bagno mi strucco strofinando il viso prima di applicare una crema al cetriolo per regalare alla mia pelle un po' di sollievo.
Mi sposto in camera e caccio un forte urlo. Indietreggio con la mano sul petto ritrovandolo seduto sul mio letto, come se niente fosse.
«Come diavolo sei entrato?»
I miei occhi si spostano velocemente sulla finestra aperta ricevendo la risposta.
La tenda svolazza e da questa entra la brezza fredda in grado di riempire l'ambiente caldo in breve tempo.
Mi affretto a chiuderla continuando a sentire il frastuono provocato dal mio cuore alla vista di Kay nella mia stanza, tra le mie cose.
Sciolgo i capelli pettinandoli prima di legarli e mi siedo sul letto attendendo una sua risposta.
«Ti ho già detto che hai un debito con me?»
Massaggio la mano. «Un paio di volte.»
Si alza ed io sono già in allerta.
Ha un passo silenzioso, veloce, sicuro. Si avvicina alla finestra. Scosta la tenda guardando qualcosa intorno, nel vicinato.
«Allora? Che cosa vuoi che faccia? Devo dire a mio padre che non sei stato tu o...»
Sta già negando. Lascia andare la presa dalla tenda avvicinandosi.
Mi sono già alzata. Ogni mio muscolo si tende quando si abbassa guardandomi fisso negli occhi.
Mi dispiace ammetterlo ma mi fa paura. Ha sempre avuto il potere di leggerti dentro, di anticipare le mosse e di stupire chiunque con strane azioni.
«Niente del genere», solleva il labbro poi sorride come un sadico.
Indietreggio di un passo. «Puoi rendermi partecipe?», chiedo stizzita.
«Sei sicura di volerlo sapere?»
Inarco un sopracciglio. «Mi prendi in giro?»
«Conosco le tue reazioni e darai di matto non appena avrò pronunciato la prima parola, ma devi farlo che ti piaccia oppure no.»
Il suo sorriso mi irrita. Averlo qui dentro mi irrita. «Ok, adesso basta con i giochetti. Dimmi che cosa vuoi!»
«Voglio te, mi sembra semplice», ghigna.
Mi cascano le braccia poi scoppio a ridere. «Sei proprio divertente», torno seria. «Smettila di prendermi in giro con questa storia e vattene!»
Nega avvicinandosi sempre di più. Indietreggio fino a trovarmi appoggiata alla porta.
Il suo profumo mi travolge l'anima quando le sue mani si posano ai lati della mia testa e il suo fiato caldo mi solletica la pelle. Inspiro lentamente la sua essenza insieme a quella della cannella emanata dal suo fiato.
Odora tanto di buono, di qualcosa di leggero come lo zucchero filato, in grado di sciogliersi in bocca lasciando quel retrogusto dolce e assuefacente.
Deglutisco a fatica cercando di restare lucida.
È come se avessi in corso dentro lo stomaco una guerra di api assassine.
«Dovrai fingere di essere la mia ragazza per un po'. Siamo entrambi nei guai e finché diremo questa bugia e tutti ci crederanno nessuno dei due si farà male.»
Ripiombo nella realtà guardandolo come se avesse appena spento la musica sollevando la puntina dal giradischi.
«Che cosa? NO, non se ne parla!» dico spingendolo, non sopportando la sua vicinanza.
Sento dolore alla mano e con una smorfia e forse anche una scusa, scendo al piano di sotto.
Cerco dentro lo studio di mio padre il kit con il ghiaccio istantaneo.
Kay mi segue ad ogni passo. «Me lo devi!»
«Io non ti devo niente. Sei stato tu a darmi un passaggio e mi hai messo tu nei guai non sono stata io!»
Non si dà per vinto. «Erin, dovrai solo fingere. Ti avevo detto che prima o poi avresti pagato il tuo debito. E sinceramente non mi importa se va contro i tuoi principi. Ammesso e concesso che tu ne abbia.»
Lo guardo male. «Ma neanche morta fingerò di stare insieme a te! Paga una ragazza se proprio non ne trovi una e sei così disperato», torno nella mia stanza.
Lo sento sbuffare alle mie spalle poi pestare i piedi sui gradini salendo le scale. Quando arriva in camera sbatte la porta. «Ti ho aiutata più di una volta. Non puoi negarlo.»
«No, ma non capisco perché dovrei fare una cosa simile», gesticolo premendo il ghiaccio sulla mano.
Gratta la tempia. «Perché devo avere detto una piccola bugia a Shannon per evitare una rissa tra di noi. Adesso crede che sia tu la mia ragazza», arrossisce lievemente.
Mi siedo sulla poltrona girevole davanti la scrivania. Poso il ghiaccio sulla superficie. Giro lentamente. «Fammi capire: hai inventato a Shannon di avere una ragazza per non farti pestare?»
Nega. «No, non proprio. Quando mi ha chiesto dove ero finito gli ho detto che ero con una ragazza e lui ha capito chissà come che eri tu e siccome adesso mi sta con il fiato sul collo e non mi va di...»
Lo fermo. «Tu sei fuori di testa. Devi dirglielo che non ci conosciamo e devi dirgli che mi hai solo dato un passaggio.»
Passa le mani tra i capelli. «Ci conosciamo eccome noi due!», alza la voce. «Lo sanno tutti. Ricordano tutti di noi.»
Apro la bocca pronta a rispondere a tono.
«Non capisci!», sbraita facendomi sussultare.
«E allora spiegami dove vuoi arrivare», replico esasperata. «Mi sembra solo una scusa per non dirmi la verità.»
«Mio fratello si sposa...»
Inarco un sopracciglio. «Sono sempre più confusa. Ma no, non sarò la tua "finta" ragazza. Non sono una escort e non starei mai con te. Rideranno di te dopo quello che mi hai fatto passare all'asilo e al primo anno di scuola elementare. Eri più grande di due anni ma avevi il cervello piccolo all'epoca e penso anche adesso.»
Si sdraia sul letto prendendo un cuscino, abbracciandolo. «Mio fratello si sposa tra qualche settimana e non vedo i miei da mesi. Mi ha chiesto di portare qualcuno perché ogni invitato deve essere accompagnato. Loro non vivono più qui, studio lontano da casa. Mi unisco agli Scorpions ma non sono a tutti gli effetti uno di loro nonostante la mia famiglia appartenga a questo gruppo. Ho amici anche tra i King e nessuno si è mai preoccupato di me o della mia lealtà mentre adesso... dopo quello che sta succedendo, stanno cercando una spia ed io non voglio andarci di mezzo solo per averti dato un passaggio ed essere arrivato tardi. Così gli ho detto che sei la mia ragazza e che è colpa tua se faccio tardi alle riunioni o se non partecipo a tutto il resto. Ci hanno creduto. Dopo questa sera quando mi hai dato quel calcio, non lo so più ma... me lo devi ok? Va meglio come spiegazione?»
Ascolto con attenzione. «Perché non sei andato con loro?»
Si agita. «Dovevo studiare per un esame. Non potevo dirglielo altrimenti pensa che figura», gesticola.
«Ti rendi conto che è un po' ridicolo? La tua spiegazione fa acqua da tutte le parti.»
Scatta in piedi. «Senti, io ti ho dato un passaggio salvandoti il culo adesso fa uno sforzo e aiuta me. Non importa la ragione.»
Mordo il labbro. «Ed io che cosa ci guadagno?»
«Davvero sei così ottusa? Sveglia!», alza il tono. «Se vengono a sapere che stai con me, nessuno ti tormenterà più. Nessuno oserà farlo. Neanche quell'idiota di cui sei sempre stata invaghita.»
Avvampo battendo le palpebre. «Come...»
Sorride. «La sirenetta e il principe azzurro. Era un classico da vedere in giardino...»
Lo colpisco e ride. «Per questo rovinavi tutto?»
«Andiamo, non puoi essere ancora arrabbiata per quel fatto», replica convinto di avere ragione.
«Mi hai distrutto la reputazione e anche il compleanno.»
«Non hai mai pianto. Perché?»
Lo guardo sbalordita. «È questo quello che volevi? Che scoppiassi a piangere?»
«Sarebbe stato soddisfacente, si. Sembravi un maschio mancato, dico sul serio.»
Lo spingo verso la porta. «Vattene!»
Il suo sguardo muta. «Dimmi di sì.»
Nego. «Non starò mai con te neanche per finta. Io ti odio. E sai cosa credo? Che tu abbia detto solo delle grosse menzogne. Quindi appena mi dirai la verità, forse rifletterò sopra la tua proposta.»
Provo a chiudere la porta ma avanza verso di me. «Quella dell'esame era una cazzata. Shannon studia con me e sa che ci tengo a laurearmi senza problemi», inizia ad ammettere di avere mentito avviandosi alla finestra quando sentiamo l'auto di mio padre fermarsi sul vialetto. I suoi passi fuori poi al piano di sotto quando chiudendo la porta si muove in casa.
«Erin?»
Mi chiama dalle scale. Apro la porta. «Sono qui, sto per mettermi a letto.»
Controllo Kay che se ne sta a cavalluccio sulla finestra.
«Ok», risponde.
Chiudo la porta.
Kay mi sorride. «Tanto non puoi tirarti indietro», scivola fuori camminando sulle tegole facendo attenzione a non inciampare.
Scuoto la testa. «Non dirò mai di sì ad uno come te, Kay Mikaelson!»
«Lo vedremo!»

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Come crepe sull'asfaltoWhere stories live. Discover now