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BRADLEY

Esiste un tipo di solitudine interiore che nessuno può comprendere. Una solitudine che, apparentemente, sembra niente e poi diventa un qualcosa di spaventoso e indomabile dentro. È quella in grado di spezzare i legami, di allontanare la felicità, il sorriso, l'amore. È quella che si fa strada nel sangue e ti scorre nelle vene senza che te ne accorgi. È quella che esce fuori, in un sospiro carico di amarezza, in uno sguardo colmo di tristezza, in un silenzio che rompe i timpani.
La tua solitudine è invisibile agli occhi degli altri, sa nascondersi bene. E non importa se ti ritroverai in mezzo a tante persone, ti sentirai sempre incompleto. E lei, lei sarà sempre lì, pronta a colpirti alle spalle, a trascinarti in un posto isolato, a farti sentire imperfetto, vuoto, triste.
Ma puoi combatterla, puoi sconfiggerla. Puoi farlo solo circondandoti di persone che ti vedono, che si accorgono di te.
Per farlo però, prima devo chiedere scusa.
L'aria di casa, leggera, calda, piena di odori e suoni, mi arriva sul viso grazie al finestrino aperto. "Tildo" esce fuori la sua testolina lasciando penzolare la lingua di lato, annusando di tanto in tanto anche lui l'aria che conosce bene.
Sporgo la mano grattandogli la testa e poi il collo prima di rimettere la mano sul volante. Non c'è più nessuna fasciatura, solo un segno, una piccola bruciatura.
Sono agitato. Non so che cosa mi aspetto di vedere dopo un lungo mese passato lontano da Seattle. La verità è che mi sono sentito talmente infelice da avere il bisogno di allontanarmi dalle persone. Ho avuto paura di infettarle con la mia tristezza, con il mio dolore. Non mi sono allontanato per capriccio. L'ho fatto per recuperare me stesso.
Ma, ho capito, che ad un certo punto, non importa cosa provi, dove ti trovi e con chi stai, devi abbandonare tutto, lasciarti alle spalle quello che fa male e andare avanti, perché per quanto sia doloroso, è l'unico modo che hai per sopravvivere.
So di non avere avuto un comportamento appropriato. So di non avere usato le parole giuste. E cosa più importante, so di dovere delle scuse alla persona che ho ferito più di ogni altra.
Ho imparato tanto in questi lunghi giorni fatti di dolore, tristezza e solitudine. Ho imparato a mettere da parte, a pensare al bene, a superare il rumore dei pensieri, dei ricordi. Ho imparato a mettere da parte, a chiudere le porte nel mio cuore, a fare spazio e a vivermi il momento. Perché la vita è come un soffio di vento freddo in una giornata torrida.
Inserisco la freccia svoltando a sinistra proseguendo lungo un tratto di strada dove vi sono dei lavori in corso, senza però ritrovarmi imbottigliato nel traffico di Seattle. È quasi ora di pranzo ed è il momento di maggiore afflusso di gente pronte a godersi un pasto e un paio di minuti all'aperto prima di tornare a lavoro. Giro intorno per vedere la centrale, uno dei miei posti preferiti e infine raggiungo la scuola materna dove posteggio nella zona riservata al personale, attualmente vuota e silenziosa.
Il sole manda spicchi di luce ovunque, riscalda il suolo e rende luminosa questa ampia zona aperta e adiacente al parco giochi in cui si intravedono dei bambini impegnati in un gioco a squadre.
«Torno tra poco, non combinare guai», dico a "Tildo", che abbaia in risposta mettendosi comodo sul sedile.
Esco dall'auto e, a passo spedito entro a scuola superando i controlli fino a raggiungere la classe di Erin. Ma qui, non trovo lei, trovo Grant, il suo collega. Un uomo che continua a sollevare sul naso gli occhiali e a svolazzare da una parte all'altra della stanza come una mamma iperprotettiva.
Busso alla porta aperta e lui senza guardarmi alza la mano chiedendo un momento prima di voltarsi e fermarsi tenendo tra le mani un disegno.
Trattiene il fiato squadrandomi per qualche breve istante e infine, riconoscendomi, si avvicina.
«Brad», dice guardingo.
Non si aspettava di vedermi.
Corrugo la fronte. Che succede? Erin ha detto ai suoi colleghi qualcosa?
«Ciao, come va?»
«Come vedi è un gran casino oggi. Mi stupisce vederti da queste parti.»
Inarco un sopracciglio. «Ah si? E perché mai?»
«Da quando Erin non lavora più qui...»
«Cosa?»
Il mio cuore sussulta prendendo a battere forsennato nel petto. Erin non lavora più all'asilo? Da quanto? Perché?
Stan non mi ha detto niente nelle nostre sporadiche conversazioni telefoniche.
«Erin non lavora più qui. Non... te lo ha detto?»
Gratto la nuca. «No, non sono stato a Seattle. Sai dove posso trovarla?»
Appare sempre più sorpreso dalle mie domande e impiega poco tempo a capire che tra me lei c'è stato qualcosa di spiacevole.
Nega. «Nessuno l'ha più vista. Si è licenziata dopo avere preso qualche giorno e poi il preside ci ha dato la notizia. Non era poi così contento e pensa ancora che lei abbia cambiato solo scuola. Ma Erin non ha salutato nessuno e non si è più fatta vedere da queste parti. Mi dispiace non poterti essere d'aiuto, amico.»
Sono sempre più agitato. Che diavolo le è successo? Perché ha abbandonato proprio questo posto?
La risposta mi arriva immediata, come un fulmine a ciel sereno. Sono stato io con le mie parole a distruggerla. È colpa mia.
Merda!
«Grazie, adesso vado. Buon lavoro», dico dandogli una pacca e allontanandomi turbato, agitato più di prima.
Fuori, nel parcheggio, mi appoggio un momento allo sportello. Che cazzo ho fatto? Ho distrutto la vita della persona più importante che ho nella mia. Sono un egoista, uno stronzo! Sono un bastardo! Aveva ragione, sono come tutti gli altri. Non ho avuto coraggio. Non le ho detto che mi sarebbe piaciuto strapparmi il cuore dal petto e tenerlo a mani nude per non sentire più dolore, per non percepire quei battiti così forti da squartarmi lo sterno in due.
Mi occorre un momento per riprendermi, per recuperare la forza e andare avanti. Se non è a scuola, solo in altri due posti posso trovarla: uno è dalla sua migliore amica.
Non so che cosa aspettarmi, quale reazione potrebbe avere nel vedermi un po' cambiato, segnato. So solo che sento il bisogno di vederla, di avere la possibilità di parlare con lei per almeno cinque minuti, per chiederle scusa. Poi, farò quello che vuole. Me ne andrò o rimarrò. Tutto è nelle sue mani.
Ancora una volta posteggio in una zona tranquilla per non rischiare un furto d'auto. Lascio scendere "Tildo" legando il suo guinzaglio all'entrata, all'ombra della pasticceria con una ciotola d'acqua e dei croccantini, ed entro sempre più agitato. Le mani mi sudano e le strofino sui jeans, prima di ficcare dentro le tasche i pugni e avanzare verso la cassa dove si trova una ragazza diversa dalla solita. Non mi riconosce ma, non appena mi vede arrivare mi sorride continuando a guardarmi dall'alto in basso.
«Buongiorno, cosa posso portarti?»
«Ciao, conosci Erin?»
La ragazza sta per rispondere quando dal laboratorio esce Sammy con due vassoi pieni di dolci colorati estivi, dall'aspetto davvero invitante.
Mi sono mancati anche quelli, rifletto mentre la ragazza dagli occhi a mandorla scuri come il catrame dice qualcosa che non sento perché sono troppo impegnato ad osservare la migliore amica della ragazza che ho tradito con le mie parole.
Sammy alza gli occhi lentamente, è pronta a tornare di nuovo dentro il laboratorio ma ad un certo punto si ferma come se qualcosa l'avesse appena punta. Si volta di scatto e urla, urla sfoggiando un ampio sorriso.
«Brad!»
Gira in fretta intorno al bancone gettandomi le braccia intorno al collo, stringendomi affettuosamente.
Ricambio l'abbraccio. «Ciao, ti trovo bene... mora», dico impacciato notando subito il cambiamento dei suoi capelli che, fino ad un mese fa erano rossi.
Non mi sono mai sentito tanto fuori posto come in questo momento. Tutti ci guardano ma non me ne curo, ho bisogno di sapere qualcosa su Erin. Non averla trovata in classe, con un abito da principessa e circondata dai bambini, mi ha scosso.
Sammy si stacca da me ricomponendosi. Si volta un momento per asciugare le lacrime poi mi sorride. «Siediti, ti porto qualcosa. Stan non mi ha detto niente.»
«Perché non sapeva che sarei tornato», dico sedendomi ad un tavolo libero.
Lei riempie due tazze di caffè e prendendo due dolcetti dalla vetrina mi raggiunge. «Ti trovo davvero bene», dice continuando a sorridere e ad osservarmi come se davanti avesse chissà quale grande sorpresa.
«Davvero Stan non sa niente?»
Annuisco bevendo un sorso di caffè. «Si, non ho detto niente, volevo fare una sorpresa a tutti.»
Lei annuisce facendosi seria. «Sei qui per Erin?»
Allontano la tazza con un dito. «È nascosta in laboratorio?»
Nega. Ha un'espressione strana e il suo viso si adombra. Mi agito sulla sedia. «Sammy, che è successo? Perché hai quell'espressione?»
«Erin non è qui», dice guardando ovunque.
«E dov'è?»
«È partita, non so quando tornerà.»
Mi sollevo dalla sedia come un pazzo. «Che cosa?»
Sammy sussulta.
Mi riprendo dallo shock, il secondo in questa strana giornata, e torno a sedermi.
«Scusa, che cosa significa che è partita e non sai quando tornerà?»
Sospira mettendo il broncio. «Da quando vi siete lasciati lei non è più la stessa, Brad. Ha passato un mese chiusa in casa a trascurare se stessa, a piangere e a...», si blocca.
«E a? Continua?»
«Non dormiva, non mangiava, non diceva niente a nessuno. Ho saputo che si è licenziata solo la settima scorsa, prima di vederla partire. In un mese è tornata ad essere quella che era quando ci siamo conosciute.»
L'ultimo commento non mi piace. Mi sento sempre più in difetto. «Dov'è andata?»
«Dalla sua famiglia. Aveva bisogno di cambiare aria. Pensava che le avrebbe fatto bene staccare per un po' la spina.»
Mi appoggio allo schienale della sedia più che stanco. Strofino gli occhi e prendo un grosso respiro. «Quanto?»
«Cosa?»
«Quanto è arrabbiata con me?»
«Il problema è proprio questo, Brad. Lei non è arrabbiata, lei è distrutta, lei è smarrita. L'hai lasciata sola e lei... si è persa. Ma ti ama così tanto da non essere arrabbiata con te, da non odiarti. Allo stesso tempo si dà colpe che non ha. Ma di una cosa sai già di avere torto, perché gli hai detto proprio quelle cose?»
Poso i palmi sulla testa appoggiando i gomiti sul tavolo. «Non lo so, ero frastornato e avevo solo bisogno di respirare, di non continuare a sentirmi come se mi mancasse qualcosa. Ho detto la cosa sbagliata per tenerla lontana e so di non avere scuse, so di avere sbagliato e voglio solo chiederle perdono, farle sapere che lo so, so di avere rovinato tutto.»
Sammy morde il labbro, un gesto che mi fa pensare proprio a lei.
«Shannon è incazzato.»
Massaggio le palpebre. So anche questo. Con lui ho parlato.
«Chiunque lo sarebbe dopo quello che ho detto. Sono stato un vero stronzo ad usare proprio quella carta. Dire che mi dispiace penso sia riduttivo.»
Sammy posa una mano sulla mia stringendola. «Ti sei ripreso, più o meno, ed è quello che conta. Anche a noi è dispiaciuto non poterti aiutare. Penso sia proprio questo che Erin non abbia accettato, il fatto che non le hai dato modo di prendersi cura di te. L'hai allontanata e non le hai permesso di dimostrarti quanto ti ama. Sai, mi ha anche parlato dei vostri litigi sul matrimonio. Si sente in colpa per non averti detto che in fondo lei vorrebbe tanto sposarti ma ho solo paura di perderti un'altra volta. E non aveva neanche torto, visto che alla prima difficoltà sei scappato. Un po' come faceva lei.»
Scuoto la testa con il senso di colpa costante dentro a farmi sentire un verme. «Ho fatto un gran casino», dico.
Annuisce più che convinta. «Però so che saprai come rimediare con lei. Solo tu ci riesci.»
Faccio una smorfia. «È partita. Come faccio a parlare con lei?»
Incrocia le braccia. «Dovevi almeno farle sapere che stavi bene. Sarebbe bastata una chiamata, almeno una. A proposito, dove sei stato?»
Raccolgo i pensieri concentrandomi per non perdermi nel vagone dei ricordi, quelli che mi conducono a mia nonna. Mi manca. Non posso negarlo e non voglio neanche farlo. Ma, devo andare avanti.
«Mia nonna voleva essere cremata e sparsa in tutti i posti in cui siamo stati. C'è una ragione a tutto questo. Lo avevamo fatto con mio nonno nei nostri viaggi insieme, così... su due piedi ho deciso di superare il dolore ritornando nei posti in cui siamo stati. L'ho lasciata con mio nonno e adesso un pezzo della sua anima sarà sparsa ovunque, sarà nell'aria», notando che mi fissa con sguardo attento, senza dire niente o interrompermi, proseguo. «Sembra una pazzia ma, mi ha aiutato ad affrontare il dolore. Poi sono stato a trovare i miei genitori, e ancora nella villa di famiglia. Qui ho dato il via ai lavori di ristrutturazione. Volevo fare una sorpresa a Erin e farle vedere dove sono cresciuto.»
Sammy si stringe nelle spalle strofinandosi le braccia. «Sarà felice di vederti. Forse avrà una brusca reazione all'inizio poi però penso che ti abbraccerà e non farà domande. Non pretenderà di sapere dove sei stato, perché te ne sei andato o perché non ti sei fatto sentire.»
«Non riuscivo a far partire quella maledetta chiamata. Quando ci provavo rimanevo in bilico, avevo il timore che mi avrebbe fatto male, che avrei avuto solo voglia di tornare e stringerla tra le mie braccia. Ma non avrei affrontato davvero il dolore.»
Sammy annuisce comprensiva. «Ti ha aspettato tanto», sussurra riflettendo su qualcosa.
Piego la testa di lato. «Che succede?»
«Non lo so. Mi manca. Spero che in qualche modo voi due risolviate tutto quanto perché quando stava con te la vedevo serena, felice e a suo agio. In questo lungo mese invece... era triste, silenziosa, incupita e distante. Spero che il viaggio le sia d'aiuto.»
«Lo spero anch'io, Sam.»
Picchia la mano sulla mia per darmi conforto e mi sorride con i suoi occhi carichi di malizia. «Hai un aspetto migliore, fattelo dire. Con quella barba, quei capelli più lunghi, impazzirà», mostra i denti.
Rido. «Già, mi regalerà anche un rasoio», dico massaggiando la barba curata.
Sammy alza gli occhi al cielo. «Quel che è certo è che lei sarà felice di rivederti. Forse non te lo dimostrerà ma... fidati di me, non aspetta altro.»
Lo scampanellio alle nostre spalle ci fa voltare e Stan entra nel locale coperto di fuliggine e con la tuta da pompiere aperta sul davanti a mostrare una canottiera bianca e i muscoli sudati al di sotto.
Sammy scatta in piedi come se avesse visto il suo idolo e raggiungendolo lo abbraccia dandogli un lungo bacio sulle labbra prima di schiarirsi la voce. Fa un passo indietro mettendosi al suo fianco ed indica nella mia direzione.
«Oggi è stata una giornata infernale, dolcezza», le tira una ciocca di capelli. «Continuo a preferire il color fragola.»
«Sai che ho bisogno di apparire di classe al nostro matrimonio», replica indicandomi.
Mi alzo e Stan, quando si volta, non si accorge di me. Dopo un istante, proprio come Sammy, sgrana gli occhi.
Indietreggia portando una mano sul petto, squadrandomi dall'alto in basso.
«Brad?»
Sul suo viso compare subito un ampio sorriso, apre le braccia e avvicinandosi mi abbraccia stringendomi a lungo e forte. «Grandissimo bastardo!», sibila contro il mio orecchio. «Mi devi almeno un anno di terapia. Mi hai lasciato solo con quell'idiota che puzza di formaggio con la muffa», continua staccandosi, guardandomi ancora stupito.
Non sono poi così cambiato. I miei capelli sono un po' più lunghi, la barba è cresciuta e ho un fisico un po' più scolpito grazie alle ore passate ad allenarmi per non perdere il ritmo e per sfogarmi.
Ci guardiamo. «Gorgonzola!», esclamiamo all'unisono ridendo e abbracciandoci di nuovo.
«Tranquillo, ci faremo dare un altro mezzo più pulito e profumato quando torno», lo tranquillizzo.
«Lo spero. Non sai che cosa significa dovere restare con i finestrini chiusi.»
Rido di gusto. «Mi dispiace, Stan. So di avere avuto una brutta reazione e di avervi creato un po' di problemi.»
Nega. «Adesso stai meglio?»
«Più o meno. Devo ancora affrontare il peggio, quindi chiedimelo domani.»
Mi dà delle pacche affettuose abbracciando poi Sammy. «Be', buona fortuna.»
«Grazie, ne avrò bisogno», esclamo. «Adesso vado, torno a casa per una doccia e poi cerco un modo per contattare Erin.»
Stan e Sammy annuiscono. «Ti aspettiamo a casa nostra, in qualsiasi momento.»
Con un cenno di saluto esco dalla pasticceria. Il mio cuore appesantito dalla notizia della partenza di Erin.
Passo la mano tra i capelli e mettendomi in auto con "Tildo", torno nel mio appartamento.
Non appena metto piede in casa, percepisco come un vuoto nello stomaco. Non mi era mai sembrato tanto silenzioso e spoglio prima d'ora. Metto un po' in ordine, pulisco per bene ogni superficie e faccio una lunga doccia per rilassarmi. Infine, mi stendo sul divano, fisso il tetto tenendo il telefono davanti.
«Che cosa sto facendo?»
Sbuffo e richiamando il mio cane, usciamo di nuovo per fare un giro.
Posteggio l'auto in una zona isolata e tranquilla, spostandomi verso il parco, dove gioco con "Tildo" per un po'. Alla fine, stanco, si siede accanto lasciandosi coccolare. Gli do i suoi biscotti preferiti e tenendolo al guinzaglio ritorno indietro.
Giro nel quartiere di Erin un paio di volte con l'auto. Mi era mancata la schiera di ville e la sua piccola e accogliente tenuta in ordine, sempre pulita dalle erbacce grazie alla sua passione per le piante.
Mi fermo proprio davanti il cancello e lei è lì che sta entrando in casa con una valigia che trascina dietro quasi fosse troppo pesante.
Indossa una canottiera di un giallo pastello con pantaloncini di jeans a vita alta e scarpe comode e di tela ai piedi. I suoi capelli sono legati in alto in una crocchia.
È sempre bella.
Mi affretto ad uscire dall'auto, ad entrare dal cancello senza fare rumore e a raggiungerla a metà strada con il cuore che mi batte forte nel petto.
Come reagirà?
Lascia la valigia e corre sul portico prendendo la pubblicità che qualcuno le avrà lasciato. Posa tutto sulla panca prima di voltarsi.
Mi fermo, mi blocco, resto immobile. Trattengo il fiato per non respirare.
Resti senza parole quando hai davanti tutto ciò per cui hai lottato e rischi di perderlo. E hai il terrore di muoverti, di fare anche solo un passo falso un'altra volta. Non esiste un modo giusto per non perdere le persone. Conta solo quello che provi, quello che senti, quello che dimostri.
In questo momento ho così tante cose da dire da non trovare neanche le parole. I pensieri si ammassano fino a seppellirmi, a lasciarmi senza fiato. E vorrei tanto distruggere questa distanza che si è creata a causa mia, ma quello che posso fare è solo attendere una sua mossa.
Erin non si muove. Non respira. Mi fissa come se davanti avesse un fantasma.
Abbozzo un sorriso sentendomi nervoso.
Le porgo le valigia azzurra e lei sussulta. «Hai dimenticato questa», dico.
Deglutisce a fatica. Il suo petto si alza e abbassa lento, solo così capisco che ha ripreso a respirare.
«Brad...», sussurra.
Lascio andare il manico della valigia e, anche se insicuro faccio un passo avanti, verso di lei.
Sollevo la mano prima di infilarla dentro i jeans. «Ciao Erin.»
I suoi occhi iniziano ad arrossarsi, le narici a guizzare e le labbra ad incresparsi e poi a stringersi. Torce le mani respirando sempre più in fretta mentre una lacrima solitaria le scende lungo la guancia.
Mi avvicino ancora e la raccolgo. La sua pelle si rizza al mio tocco e i suoi occhi seguono ogni mio movimento con attenzione.
La sua mano, trema nel sollevarsi e avvicinarsi al mio viso. Trattiene per un momento l'istinto poi i suoi polpastrelli si posano sulla mia barba per accarezzarla.
Chiudo gli occhi lasciandomi colpire dal brivido che scuote ogni parte di me.
«Dovresti tagliarla un po', però mi piace», sussurra con voce strozzata.
Sorrido e lei singhiozza, le labbra le tremano e si agita non sapendo che cosa fare.
«Volevo solo apparire più vecchio per vedere se mi avresti riconosciuto.»
Sorride anche se a fatica continuando a tenere il palmo sulla mia guancia.
Circondo con le dita il suo piccolo polso e bacio il suo palmo prima di abbassarlo e con uno strattone delicato, l'abbraccio.
Lei inizialmente non si muove, sembra colta alla sprovvista e nel panico, come se stesse lottando con se stessa; poi ricambia l'abbraccio prima di picchiare un pugno abbastanza forte sul mio petto. Lo stringo tenendolo premuto contro la pelle facendole sentire come sta battendo il mio cuore.
E ci abbracciamo tanto stretti, quasi come se dovessimo fonderci nel silenzio di questo momento irripetibile, in grado di riparare una ferita che per tanto tempo non ha smesso di sanguinare. Ci abbracciamo stretti. Ci aggrappiamo l'uno all'altra, con forza. Ma non fa male. È solo un abbraccio che ti scalda le ossa, ti ripara il cuore, ti riporta a casa.
«Sei un po' magra. Qualcuno mi ha detto che non hai mangiato molto», le sussurro.
Morde il labbro. «Ho recuperato questa settimana.»
«Ti sei rilassata?»
«Oh si», fa una smorfia. «Con mia madre pronta a bisticciare con mio nonno mentre il ristorante era pieno di personaggi famosi o mio zio a tempestarmi di domande, si, proprio una bella settimana rilassante.»
«Hai conosciuto qualcuno?»
Nega. «Ho solo scattato qualche foto, ho mangiato e mi sono riposata.»
Non riesco a lasciarla andare. «Possiamo fare una passeggiata e parlare?»
Rimane tra le mie braccia. Da questo capisco che neanche lei intende staccarsi. «Devo portare in casa le valigie e...», si volta di scatto.
Sorride e allontanandosi da me, corre verso la mia auto. Apre la portiera lasciando scendere "Tildo" che le salta addosso provando a leccarla. I due finiscono a terra e lottano per un paio di secondi.
«Ciao bestiolina», dice ridendo e abbracciandolo con tanto affetto.
Questo mi fa sentire maggiormente in colpa. È come se avessi una lama piantata nel petto.
Sento un miagolio e lei, seguita dal mio cane si avvicina ad una gabbietta lasciando uscire la sua palla di pelo che, apparentemente nervoso, all'inizio non calcola di striscio "Tildo", poi però lo attacca e i due corrono verso la porta continuando a mordersi e a giocare.
Erin li osserva. Il suo sorriso però si spegne per un momento e per distrarsi corre ad aprire la porta lasciando entrare i nostri animali. Sono curioso di vedere "Lady Black", il pesce che è rimasto con lei, ma non oso seguirla mentre porta dentro le valigie lasciando che l'aiuti, non oltrepassando la soglia per non invadere il suo spazio. Rimango per una manciata di minuti fuori ad aspettarla sul portico.
Erin esce chiudendo la porta, le mani umide e gli occhi su di me. «Possiamo...»
Le faccio cenno di andare. Prima chiudo i finestrini e le portiere dell'auto.
Camminiamo lungo il marciapiede un po' distanti. Nessuno dei due sa che cosa dire. Non è imbarazzante, è solo doloroso.
«Credo di doverti delle scuse», inizio insicuro per sciogliere il ghiaccio.
«Credo sia un po' tardi per quelle», replica entrando nel parco dove sono stato a giocare prima insieme a "Tildo".
«Lo so, vorrei...»
Si ferma guardandomi male. «Che cosa Brad? Che cosa vuoi? Dimmelo perché nell'ultimo mese non ho fatto altro che avere dei dubbi e molte domande, oltre ad innumerevoli paranoie.»
Mi avvicino e lei non si scansa, mi fa capire che è arrabbiata e delusa, non spaventata o disgustata. Sammy aveva ragione.
«Credi che non sappia come ci si sente quando tutto crolla e ti travolge? Credi che non sappia come ci si sente quando hai bisogno di qualcosa o qualcuno a cui aggrapparti e l'unica persona su cui puoi fare affidamento sei solo tu? Credi che non lo sappia? Io lo so, Brad. Lo so. So come ci si sente quando il mondo crolla e non hai una mano tesa pronta ad afferrarti, a reggerti, a darti forza. Lo so. Ma tu non eri solo. Avevi me. Hai sempre avuto me, sin dal primo istante in cui ci siamo incontrati.»
Apro e richiudo la bocca. Lo so. Maledizione. Lo so.
Passo la mano sui capelli. Inspiro ed espiro piano, quasi per non fare rumore.
«Ho sparso le ceneri di mia nonna in tutti i posti in cui siamo stati. Andavano in viaggio non solo per divertirci, lo facevamo per spargere le ceneri di mio nonno e lei desiderava la stessa cosa. Ecco dove sono stato nell'ultimo mese. Ho affrontato il dolore da solo perché altrimenti non se ne sarebbe andato più via.»
Gonfia il petto. Le guance le si arrossano. Si sente in colpa, per non avere capito.
«E se ne è andato?»
Abbasso gli occhi. «No, si è solo acquietato. Non se ne andrà mai.»
Annuisce andandosi a sedere su una panchina. Fissa davanti a sé mentre prendo posto accanto a lei.
«Poi, dove sei stato?»
«Dai miei e... ho iniziato a ristrutturare la villa.»
Si volta fulminandomi con i suoi occhi verdi. «E non hai avuto un momento per chiamare, per dirmi che eri vivo e stavi meglio?»
«Se lo avessi fatto, sarei tornato immediatamente.»
Accetta la mia risposta ma è fin troppo calma. So che da un momento all'altro scoppierà.
Prendo la sua mano portandola in grembo. Sono agitato e ho bisogno di conforto. «Mi manchi.»
«Adesso come stai?»
«Starei meglio se riuscissi a non farmi odiare da te.»
Si volta di nuovo di scatto. Non riesce a guardarmi per più di un minuto. So perché lo fa, trattiene le lacrime.
«Io non ti odio, Brad.»
Fisso le nostre dita. «Sei delusa, direi che è peggio.»
«Che cosa dovrei fare? Mi hai lasciata da sola quando tutto intorno a noi tremava. Sono rimasta per giorni ad aspettarti e non hai avuto la decenza di dirmi in faccia che avevi solo bisogno di un po' di spazio. Hai usato una carta dura e orribile per farlo e adesso non sai come chiedere scusa, perché non accetterò una parola così banale dopo avere provato dentro l'inferno.»
Eccola, esce fuori indomabile, ma è stanca.
«Sai cosa mi fa più rabbia?»
"Come posso saperlo?", vorrei dirle. Ma rimango zitto, in attesa che continui e mi colpisca per come merito.
«Mi fa rabbia che ti sei preso tutto di me. Ti sei preso i miei occhi, il mio cuore, i miei battiti. Ti sei preso un pezzo dietro l'altro di me. E io, ingenua e innamorata, te l'ho permesso. Ti ho permesso di rubarmi l'ultima speranza che avevo di essere felice e mi hai fatto male. Tu... mi hai fatto tanto male. E non deve più succedere. Non deve. Perché io non riuscirò più tenere in piedi i pezzi del mio cuore che ho tenuto unito usando strati di cerotti, colla e scotch, se continuerai a distruggermelo.»
Mi alzo e poi mi inginocchio davanti a lei. Le prendo entrambe le mani. «Lo so che dire "mi dispiace" non cambierà le cose, non riparerà la ferita che ti ho provocato. So che ho sbagliato e puoi anche odiarmi per quello che ti ho detto, ma non lo pensavo davvero, sapevo solo che ti avrebbe fatta allontanare. Volevo... io... non volevo infettarti con la mia tristezza. Non volevo farmi vedere in quello stato. Tu non lo meritavi e io... dovevo riprendere il controllo.»
Mi guarda per la prima volta negli occhi e mi spaventa quello che sto provando per lei.
«Ti amo, Erin. E so che non riuscirai a fidarti di me, so di non avere scuse che tengano ma... sappi che sono disposto a tutto pur di avere di nuovo un posto nel tuo cuore.»
Solleva gli occhi per non piangere. «Il tuo posto non è mai stato occupato», sussurra.
Mi sporgo premendo la fronte sulla sua. «Grazie, piccola.»
Le sfioro la fronte con le labbra scendendo sulla sua guancia. Lei, per istinto, mi abbraccia e sollevandomi la tengo stretta.
«Non andare mai più via.»
Premo le labbra sulla sua spalla. «No, te lo prometto. Mi comporterò da adulto. Inizierò chiedendoti perdono ogni giorno e se non basterà te lo dimostrerò. Non mi importa quanto tempo ci vorrà, lo farò.»
«Ho sbagliato anch'io», sussurra dispiaciuta.
Vorrei dirle che lo so. So quello che ha fatto, ma non voglio che si senta in colpa. Io ho commesso un errore e questo mi basterà come conseguenza per averla lasciata sola. Sarà la mia punizione. Inoltre, non riesco ad essere arrabbiato con lei, doveva essere proprio a pezzi per averlo fatto.
«So che non ti fidi, sappi solo che per me sei importante, che non è cambiato quello che provo per te e che aspetterò fino a quando non sarai pronta per stare di nuovo con me.»
Scivola lungo il mio corpo. Chiude gli occhi poi inspira ed espira e singhiozza nascondendo il viso sul mio petto. «Io sono pronta, non so se lo sei tu...»
Le afferro il viso tenendolo tra le mani. «Io sto meglio. Mia nonna è morta ma adesso sarà in pace e so che veglierà su di noi. Ho avuto una brutta reazione e mi sto rendendo ridicolo, così tanto da desiderare di essere internato.»
Sorride poi mi circonda la nuca e alzandosi sulle punte appoggia il mento sul mio petto.
«Che cosa si fa adesso?»
«Vuoi ancora stare con me?»
«E tu?»
Sorrido affondando la mano tra la sua guancia e dietro l'orecchio. «Siamo alle elementari?»
«Vuoi che riempia la casella sul si o sul no?»
L'avvicino al mio viso annuendo. «Fallo.»
«Sul si, senza indugio.»
Chiudo gli occhi abbracciandola, inspirando il suo profumo, lasciando che i miei polmoni si impregnino del suo aroma bruciando di vita. «Mi dispiace, Erin.»
Si avvicina alle mie labbra sfiorandole poi si allontana staccandosi da me, sciogliendo l'abbraccio.
La seguo e mano nella mano torniamo a casa. Qui mi lascia entrare.
Varco la soglia in punta di piedi seguendola in cucina dove mi offre una birra.
La stappo bevendone un sorso. «Hai ancora i fiori», le faccio notare.
«Non sono riuscita a gettarli e credimi, avrei tanto voluto.»
Le poso la bottiglia che tiene stretta tra le mani e afferrandola per il viso premo le labbra sulle sue alleviando la voglia e la mancanza che sento da troppo tempo.
Mi si aggrappa alle spalle ricambiando disperata, proprio come lo sono io che cerco la sua lingua e mordo le sue labbra pronte al mio attacco.
La sollevo sul ripiano della cucina sistemandomi tra le sue gambe dopo averle divaricate. Si agita quando le attacco il collo, assaporando il suo profumo, la sua fragranza. Poi le mordo il lobo facendola mugolare e inarcare la schiena.
Mi ferma. «Bradley, devo dirti una cosa», si agita inumidendosi le labbra. «Ti arrabbierai e mi odierai...»
Non voglio sentirlo. Non adesso. «Posso tirare ad indovinare quello che stai per dire e mi sta bene tutto. Non stavamo insieme ed è stata colpa mia.»
Mi abbraccia incerta. «Davvero non vuoi saperlo?»
Nego. «Non adesso.»
Chiude gli occhi. «Va bene», sussurra. «Ma parleremo di tutto?»
Poso un bacio sulla sua gola piano, facendola ansimare. «Solo se mi dirai di sì.»
Le sfugge un sorriso insieme a una lacrima e mi avvicina a sé passandomi il pennarello che recupera dal ripiano.
Non riesco a contenere l'emozione che sento e le disegno l'anello identico al primo. Lei fa lo stesso e lasciando cadere il pennarello mi stringe.
«Mi sei mancato, tanto. Io... non posso stare senza di te perché non voglio. E anche se ho sbagliato moltissime volte, so che troveremo sempre un modo per andare avanti, insieme.»
Scivola dal bancone e la fermo.
«Si, solo io e te.»
Annuisce rimanendo in bilico. Cammino e lei indietreggia raggiungendo la sua stanza dove si stende sul letto ed io insieme a lei.
«Abbiamo qualcosa in sospeso io e te, vero?»
Capisce al volo e si avvicina alle mie labbra. «Anche se farà male?», chiede piano, riferendosi al fatto di una possibile delusione.
Poso piccoli baci sul suo collo facendola agitare. Con un ginocchio le divarico le gambe e inizio sfilandole la maglietta constatando che non porta niente sotto.
«Sei andata in giro così?»
Arrossisce.
«Mi piace», sussurro.
Le sbottono i pantaloncini e tiro giù tutto abbassandomi su di lei che mi ferma. «Sei sicuro di volermi ancora?»
«Mai stato tanto sicuro in vita mia. Adesso mi fai vedere quanto ti sono mancato?»
Sorride raggiante dopo lunghissimi minuti carichi di tensione e tristezza, sfilandomi dalla testa la maglietta.
Sfiora poi il mio petto. «Hai fatto uso di steroidi o cosa?»
Rido sentendomi leggero, meno insicuro. «Mi sono concentrato sugli allenamenti in palestra. In un mese hai visto che risultati?»
Mi tocca ancora e riprendo a respirare.
«Potevi anche invitarmi agli allenamenti una volta tanto», usa il sarcasmo per celare i suoi sentimenti.
«Sto per invitarti adesso», mugugno.
Ride intrecciando braccia e gambe intorno al mio corpo.
Mi abbasso e mi impossesso della sua bocca prima di prendermi lei, il suo amore incontaminato e tutto quanto, sentendomi di nuovo intero, di nuovo a casa.
Secondo me ricominciare da zero proprio non si può. Forse, dopo una brutta caduta, riparti da dove ti sei fermato. E lo fai grazie alle persone che ti amano, che ti vogliono bene e te lo dimostrano anche quando non lo meriti. Perché nelle vita hai sempre la tua ancora, la tua scialuppa di salvataggio, il tuo scoglio e il tuo porto sicuro. Non puoi azzerare tutto quello che hai fatto perché farà sempre parte di te, del tuo vissuto. Quello che puoi fare è riprendere in mano la tua vita e smaltire il dolore di fronte quelle piccole cose che fanno sentire sereni, innamorati e fortunati. E bisogna scavare un po' a mani nude in mezzo al dolore per trovare il bene, quello puro ed autentico, sentendo il cuore meno oppresso, più leggero. Bisogna ripartire dall'amore che resta. Quello che ti dimostra chi vuole stare davvero al tuo fianco.
«Ti amo», sussurro.
Affannata si rilassa e poi mi sorride. «Ti amo.»

🖤

Come crepe sull'asfaltoWhere stories live. Discover now