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Quando arriva improvvisa la pioggia e quasi fitta una nebbia a coprire tutto intorno, siamo costretti a spostarci in auto. Prendiamo posto sui sedili anteriori non avendo la minima intenzione di tornare indietro.
Appoggio la testa contro il bordo del sedile cercando di scaldarmi le mani, guardando verso l'orizzonte dove iniziano ad illuminare il cielo i primi lampi che si scatenano susseguendosi a distanza di qualche minuto. Le nuvole sempre più di un grigio scuro vengono tagliate dalle saette che sembrano cadere in acqua.
Vedo Kay disturbato dall'evento atmosferico. Evita infatti per gran parte del tempo di guardare fuori dal finestrino concentrandosi su qualcosa che appare sullo schermo del suo cellulare.
Sbircio un paio di volte ma si sposta impedendomi di vedere con chi sta chiacchierando animatamente e a tratti divertito.
Non so perché questo suo gesto così schivo mi ferisce. Mordo la guancia abbassando il finestrino, lasciando atterrare sul sedile qualche goccia di pioggia e dentro l'abitacolo il rumore del temporale sempre più rabbioso.
«Con chi stai parlando?»
Non alza il viso, non mi guarda, le sue dita si fermano per un nano secondo prima di continuare a digitare come se niente fosse. Mi scaccia via come se fossi una mosca.
La cosa mi indispettisce e non poco. Pertanto, sentendomi ignorata, apro la portiera uscendo fuori quasi di corsa, trattenendo l'istinto di urlargli addosso.
Guardo intorno abbracciandomi e incuriosita e distratta dal temporale mi avvicino a riva.
So che non dovrei, che è pericoloso ma sento di avere bisogno di un lungo minuto da passare da sola con me stessa.
Mi lascio accarezzare dalla pioggia, da una sferzata di vento che mi fa indietreggiare di un passo dal punto in cui le onde tentano di bagnarmi i piedi.
L'odore di salsedine è sempre più persistente e va a mescolarsi con quello umido del terreno a pochi metri di distanza sulla quale si formano delle pozzanghere, alcune simili a voragini.
Chiudo gli occhi inspirando l'aria fresca. Riempio proprio i polmoni imprimendo dentro questo istante, questo viaggio, questa meravigliosa vista che si è trasformata nel solito paesaggio grigio e spento facendomi capire come sarà la mia vita.
Mentre me ne sto ad ammirare la forza straordinaria della pioggia, le onde alte a distanza, gli alberi a piegarsi al volere del vento, vengo afferrata da dietro e trascinata verso l'auto con una forza che non riesco proprio a combattere.
L'unico modo che ho di difendermi è urlare. Urlo forte, più che spaventata, per essere stata colta così alla sprovvista. Ultimamente i miei sensi fanno cilecca. Non sono più attenta e spesso mi distraggo così in fretta da perdermi.
Guardo Kay arrabbiata. Adesso mi trascina pure in auto? Dopo avermi ignorata?
Inviperita lo spingo con tutte le mie forze.
«Che diavolo fai?»
Non lo scalfisco minimamente. «Che cazzo fai tu! Sei impazzita?», sbraita scuotendomi.
I suoi occhi chiari sono spalancati, letteralmente fuori dalle orbite, i muscoli tesi e le dita strette alle mie spalle.
Passo la mano sul viso togliendo i capelli bagnati che si attaccano alla pelle. «Volevo solo...»
«Smettila di dire cazzate! Adesso torni in auto», urla ancora spingendomi dopo avere aperto la portiera.
La sua paura si palesa ai miei occhi. Non ho riflettuto abbastanza su quello che stavo facendo quando sono uscita dall'auto. Non ho pensato alla sensazione che deve avere provato e che sta provando in questo istante.
Il suo atteggiamento però è come benzina lanciata su un fuoco già indomabile.
Scrollo le sue mani dal corpo come se fossero insetti e gli punto l'indice in faccia. «Tu non mi dai ordini. Se proprio hai paura stacci da solo in auto ad ignorarmi», replico aspramente dandogli le spalle come una bambina offesa.
«Sei proprio una stronza», sibila tra i denti.
Mi volto. «Com'è che hai detto?»
Sì carica mentalmente prima di colpirmi.
«Hai sentito bene quello che ho detto. Ma se proprio ci tieni te lo ripeto: sei una grandissima stronza! A te non importa niente degli altri. Tanto alla fine te ne andrai lo stesso da qui. Non aspetti che quel momento, quello in cui sparirai di nuovo. Ecco perché non vuoi lasciarti alle spalle tutto quello che hai passato. Ecco perché non riesci proprio a smettere di comportarti da egoista», mi urla addosso con una rabbia nuova.
Rimango spiazzata dalle sue parole. E nonostante abbia voglia di dire la mia urlandogli contro, non riesco a replicare perché le parole mi si impigliano in bocca mentre le sue continuano a rimbombarmi dentro colpendomi più di una lama piantata nel petto.
Vedendomi pietrificata ne approfitta per continuare, per aprire maggiormente la ferita. «Non ti rendi minimamente conto che c'è qualcuno che cerca di fare qualcosa per te perché sei annebbiata dai tuoi desideri, dalle tue paure, dai tuoi bisogni. Metti tutto questo prima di ogni altra cosa. Sei egoista e sei una stronza!», ripete con rabbia entrando in auto.
Spalanco la portiera impedendogli di chiuderla dopo averlo rincorso.
Ci guardiamo in cagnesco. Dopo quello che a me sembra un tempo apparentemente lungo, parlo per prima, sforzandomi di mantenere la concentrazione e di essere lucida senza correre il rischio di lasciarmi distrarre dalla sensazione che mi provoca la sua vicinanza, il suo volto livido. È come tentare di prendere in giro il diavolo. Una vera impresa eroica per i miei nervi.
«Non puoi trattarmi così e poi chiudermi la portiera in faccia. Non puoi urlarmi addosso queste cose e poi mandarmi a quel paese. Non puoi darmi dell'egoista e comportarti da idiota con me!»
Mi guarda male. Allora non riesco più a sostenere il suo sguardo. Scuotendo la testa sbatto la portiera e pestando i piedi sulla sabbia, mi incammino verso la scogliera, nel punto in cui ci siamo lanciati poche ore prima.
Ripercorro il sentiero salendo in alto per raggiungere il precipizio facendo attenzione al terreno sempre più morbido e scivoloso.
Per fortuna arrivo incolume dopo avere cambiato strada per ben due volte ed essermi quasi persa a causa del fiumiciattolo d'acqua che scorre veloce verso il basso.
Quando raggiungo lo spazio pieno di pietre ed erba piegata dal vento, lascio sfuggire un singhiozzo. Stringo poi i pugni sulla fronte facendo avanti e indietro un paio di volte mentre la pioggia mi casca addosso appesantendomi i vestiti.
Dopo il trasferimento improvviso e il successivo divorzio dei miei, molte persone consigliarono a mia madre di mandarmi da uno psicologo.
«Erin, le tue maestre, i nonni e persino la vicina hanno notato che non ti integri con gli altri compagni a scuola o con i bambini del quartiere e pensano che questo possa risolvere il problema», mi disse quel giorno con la sua tipica leggerezza, senza neanche porsi alcuna domanda sul perché del mio strano comportamento. Era come se per lei questo non avrebbe avuto alcuna ripercussione su di me, come se tutto si sarebbe risolto con una sola seduta, a parlare con uno sconosciuto silenzioso.
«Ti aiuterà a sfogarti», aveva detto. «Vedrai che poi starai meglio.»
Per lei era semplice. Un po' come quando hai mal di testa e risolvi tutto con del semplice paracetamolo.
Le maestre credevano che fossi viziata, che guardavo gli altri con un pregiudizio o con superiorità e che in qualche modo quello che stavo passando aveva intaccato la mia vita bloccandomi. I miei nonni lo vedevano come un capriccio il fatto che non mi integravo o che non parlavo con nessuno e me ne stavo alla larga da tutte quelle bambine che continuavano a piangere se non ottenevano un buffetto e un buon voto o se non gli compravano la bambola che volevano.
Leggevo tanto, guardavo film e cartoni animati adatti alla mia età, mi applicavo nello sport, imparavo le lingue, anche quelle meno comuni ma non reagivo se mi provocavano, non rispondevo se mi facevano una domanda personale. Semplicemente ero spenta, distante, diffidente.
Per tutti quelli che mi vedevano, questa chiusura era indice di un problema e a mia madre non piaceva il modo in cui facevo capire a tutti la nostra condizione. Si vergognava di essere guardata come una donna frustrata o peggio: una traditrice. Ma non si preoccupava del male che stava facendo a me.
Allora per non farla lamentare sono andata da questa persona, l'ho fatto per anni. Mi sedevo e fissavo il tavolo o la finestra rispondendo di tanto in tanto a qualche domanda e lui si arricchiva alle sue spalle continuando a dirle che ero solo piena di insicurezze.
Con il tempo però mi sono stancata e ho detto basta. Ho imparato a sopportare ogni cosa senza piangermi addosso, a reprimere ogni genere di sentimento e ad andare avanti.
Tutti pensavano che fossi insensibile ma nessuno si accorgeva che lo ero diventata a causa loro.
Nessuno si è mai preso la briga di capirmi. Tutti si sono sempre fermati alle apparenze. Come se vedendo i miei capelli scompigliati e pieni di colore o le mie felpe scure avrebbero avuto una risposta. Ma di me dicevano solo che ero un disordine umano, un uragano improvviso e poi silenzio.
Durante l'adolescenza ho odiato tutti. Ho odiato lei per non essermi rimasta accanto, ho odiato mio padre per essere sparito, ho odiato i miei compagni che continuavano a ridere alle mie spalle, ho odiato lo psicologo e le sue domande, ho odiato me stessa.
Ho sofferto tanto e a tal punto da avere attacchi di panico improvvisi ma che ho sempre placato per non mostrare agli altri quanto ero distrutta.
E sono andata avanti con le mie paure, con il mio carico di paranoie. Sono andata avanti standomene zitta, tenendomi dentro il peso di un passato che inizia a sgretolarmisi dentro fino a schiacciarmi.
Non so se ho fatto bene. Non so se cambierò mai. So solo che so di essere egoista. Lo sono sempre stata ma a causa di quello che ho dovuto vivere in questa vita che mi è stata concessa e dalla quale ho sempre cercato di prendere il meglio mettendo da parte quel peggio che ha continuato a riversarsi sul presente rovinando ogni singola cosa bella mi sia mai capitata.
So di non essere sempre attenta e che ci sono volte in cui mi perdo allontanando le persone. So di non essere affidabile, dolce e accondiscendente. So anche di essere quella che delude, quella che se ne va senza lasciare traccia o se lo fa lasciando scompiglio.
Ma sono anche una ragazzina ferita, umiliata costantemente dalle persone e abbandonata dai genitori che è come se non avessi mai avuto. Sono impaurita dalla prospettiva di legarmi o affezionarmi a qualcuno che ho sempre pensato di odiare e attanagliata dal pensiero di poter essere presa in giro.
E piacerebbe anche a me avere qualcuno accanto. Qualcuno che sia davvero presente. Che accetti ogni mio frammento senza avere paura di ferirsi.
Ognuno di noi vorrebbe un posto nella vita di una persona dove poter essere speciale, a casa. Anche se questo fa paura.
In questo istante mi sento intrappolata in una fottuta stanza priva di finestre e porte, soffocata da tutto ciò che mi circonda, in cui spero, desidero da anni. Sono senza più aria.
«Erin...»
Lo guardo lasciando uscire il fiato che va a mescolarsi in una nuvola di condensa al freddo, alla pioggia, alla nebbia.
Non voglio parlare con lui proprio adesso che sono nel panico. Un altro aspetto di me che capita raramente ma che quando arriva mi schiaccia in una sorta di spirale senza fine facendomi sentire sconfitta.
«Erin», ripete avvicinandosi di un passo.
Non resisto. «Sei stato davvero... cattivo prima. Non voglio parlare con te in questo momento. Tornatene in auto o sparisci fa quello che cazzo ti pare ma non avvicinarti.»
Appare non solo spaventato a causa del temporale ma adesso anche preoccupato per me. «Vieni qui», prova ad abbracciarmi, chiudo gli occhi inspirando pesantemente, respingendolo con tutte le mie forze. Indietreggio ferendolo quando mi scanso guardandolo con astio, come se fosse un estraneo.
«Non toccarmi», sbraito nello stesso istante in cui un tuono interrompe il rumore della pioggia.
Mette le mani avanti dopo avere sussultato. «Calmiamoci, ok?»
«Calmarmi?», lo guardo come se mi avesse appena dato un pugno allo stomaco. «Hai detto chiaramente quello che pensi su di me quindi smettila di fingere, smetti di comportarti come il ragazzo che non sei. Mostrati solo come sei davvero: privo di sentimenti, pieno di segreti. Un ossimoro tossico. Esci fuori il tuo vero piano nei miei confronti ma smettila di continuare con questa scena patetica. Più ti guardo più mi disgusti. Sei...», ringhio non riuscendo a continuare stringo i pugni di nuovo sulla fronte mentre l'attacco di panico si fa varco nella mia mente iniziando a stringermi la gola, ad intorpidirmi le membra.
«Sono cosa? Continua! Giudicami come fanno tutti. Omologati anche tu alla massa piccola Erin!»
Avvampo espirando. Sento proprio il fuoco devastarmi il cuore. «Sei come tutti gli altri, Kay. Quando non ottieni quello che vuoi decidi di mandare tutto a puttane comportandoti come un ragazzino ferito.»
Lo supero. Mi ferma tenendomi per un braccio stringendo abbastanza forte la presa da lasciarmi un livido. «Ripetilo», mi provoca avvicinando il viso.
«Sei un ragazzino ferito e impaurito dalla prospettiva che qualcuno possa vederti per quello che sei davvero dentro.»
«Continua»
So cosa sta facendo. «Non ne vale la pena. Tanto non comprendi», mi stacco dalla sua presa con uno strattone e dopo averlo guardato male, scendo dal sentiero.
Scivolo un paio di volte dopo avere intrapreso il pendio insidioso e alla fine, nonostante l'attenzione a dove metto i piedi, inciampo e mi ferisco una caviglia.
Il bruciore si irradia immediato sulla gamba. «Merda!», impreco boccheggiando, fermandomi.
Seduta su un tronco che puzza di muffa e legno bagnato insieme al terriccio melmoso e maleodorante proveniente da una pozzanghera vicina, abbasso il calzino e noto il taglio dalla quale fuoriesce una striscia di sangue.
Sento dei passi affrettati dietro. «Che cosa è successo? Perché ti sei fermata?»
Mi rialzo in fretta tenendo tra i denti la lingua per non urlare di dolore. «Niente. Non è niente», dico freddamente allontanandomi da lui.
«Erin, aspetta!»
La caviglia brucia ma continuo a camminare superando l'auto ferma sulla spiaggia.
Per fortuna ha smesso di piovere e, nonostante il terreno e la sabbia siano umidi, riesco a non cadere o a farmi male ulteriormente.
Mi spingo verso la riva arrivando quasi zoppicante. Tolgo velocemente la scarpa e anche il calzino strappandolo via dal piede che affondo nell'acqua fredda. Questa, mi regala un certo immediato sollievo allontanando il bruciore e alleviando il dolore che sento a causa del taglio non molto profondo ma ben visibile. Devo avere preso una storta ed essermi tagliata sfregando contro quel piccolo masso.
Kay si inginocchia di fianco a me passandomi una scatola di latta bianca con una croce sopra e un cerotto a sticker all'angolo. «Tieni, prendi questo. Non ti toccherò ma devi disinfettarlo come si deve quel taglio.»
Apro il coperchio prendendo il flacone di disinfettante e un batuffolo di cotone bianco soffice. Non appena sfiora la ferita pizzica terribilmente ma serro i denti per non emettere alcun verso.
Kay freme vedendomi soffrire senza neanche piagnucolare. Le sue dita affondano nella sabbia trattenendosi più di quanto sia abituato. Non resiste. Mi toglie tutto dalle mani facendo al posto mio, avvolgendomi la caviglia con della garza come se lo avesse fatto molte altre volte. Infila poi il calzino. Rubo la scarpa dalla sua mano prima che possa anche solo infilarmela.
«Posso farlo anche da sola», rispondo acida alzandomi, spostandomi in auto dove mi tolgo gli indumenti bagnati per asciugarli. Mi avvolgo sotto il caldo tessuto del plaid morbido tenendo la gamba stesa sul sedile. La caviglia pur non essendo gonfia mi fa male.
Kay entra in auto infreddolito. Mi solleva la caviglia con delicatezza sedendosi prima di scompigliarsi i capelli e togliersi la maglietta più in fretta che può continuando a battere i denti e a strofinarsi la pelle per scaldarsi.
Contrae la mandibola guardando davanti a sé quando tra le nuvole si intravedono altri lampi che si allontanano, poi prova ad avvicinarmi a sé. Mi oppongo rischiando di farmi male quando gli mollo una pedata.
«Facciamo pace?»
Mi fissa e il suo sguardo è come se perforasse il mio cuore, come se penetrasse in tutto ciò che sono raggiungendo la mia anima.
«Credi sia così facile? Prima devi crescere un po'», mi stringo sotto il plaid.
Accende il calorifero per qualche minuto sporgendosi in avanti poi, dopo averlo spento, scivola vicino a me.
«Si, è facile. E non è vero che devo crescere. Siamo adulti, possiamo fare pace in tanti modi. Basta volerlo.»
Guardo fuori dal finestrino non riuscendo a sostenere il peso del suo sguardo freddo ma in grado di scaldarmi la pelle e spingere il cuore al limite. «Non voglio. Adesso lasciami in pace.»
Sbuffa. «Hai la testa più dura di quella di un mulo. Sei... incredibile. Smetti per un attimo di essere orgogliosa, metti tutto da parte e dimmi che cosa posso fare.»
«Ti ricordi che ti ho detto che mi sento rotta in mille pezzi? Ecco, tu hai frantumato gran parte dei cocci. Li hai polverizzati e ci hai soffiato sopra. Non puoi fare più niente.» Accompagno le parole che escono stridule con i gesti delle mani che tremano.
Scuote la testa. «No, tu sei arrabbiata perché non sopporti che qualcuno riesce ancora ad avere un certo potere su di te. Ti fa rabbia perché non sai più come combattermi. Perché non mi odi. Non più come prima, visto che sei consapevole del fatto che sono cambiato e che non agisco più facendo scherzi da matricole.»
«Mi piacerebbe odiarti, credimi. Sarebbe più facile. Almeno non proverei questa forte delusione a causa tua.»
Rimane per un attimo in silenzio ad escogitare chissà che cosa.
Quando penso che stia per allontanarsi si fa più vicino e lambendo il plaid lo tira abbassandolo dalla mia pelle nuda ed esposta.
«Avvicinati», mormora.
La sua reazione mi riempie di un desiderio nuovo, carnale. Ogni cellula del mio corpo impazzisce e mi ci vuole tutta la forza possibile per non cedere, per non toccarlo facendo scorrere le dita sulle sue labbra o sulle linee del suo viso così attento. Vorrei premere il palmo sulla sua guancia, sentirne il calore. Impongo a me stessa di non crollare come una stupita. Lui è il male. Lui è il diavolo.
«No, non voglio neanche averti vicino. Non devi toccarmi e non devi parlarmi.»
Non lo guardo ma so che sta sorridendo. Trova tutto così divertente. Non capisce proprio quando è il momento di smettere di scherzare e non prendere tutto alla leggera.
«Stai mentendo», mormora affondando la mano sulla mia vita. Quando tocca la pelle nuda sotto il plaid i miei occhi si chiudono per un nano secondo in cui cerco di sedare i brividi, poi li riapro con uno sfarfallio di palpebre. Se ne accorge ma non esclama niente. Non fa nessuna delle sue battute volte a conquistarmi.
Si fa serio. Deglutisce un paio di volte. «Spiegami perché sei così arrabbiata con me.»
«Perché non è vero che sei sincero. Hai detto delle cose davvero brutte su di me. In breve sei tornato quel bambino che mi ha fatto venire i primi incubi e le prime paure. Sei di nuovo la persona di cui non devo fidarmi o tenere vicino.»
Avvicina il viso. «Mi dispiace, non ho ragionato. Ero... non sopporto i temporali, lo sai, hai visto la notte scorsa come ho reagito, no?»
Annuisco. «Non l'ho fatto di proposito ad uscire dall'auto. Avevo solo bisogno di un minuto per raccogliere i pensieri. Sarei tornata di nuovo qui dentro ma tu... mi hai spaventata.»
Fa una smorfia disgustato da se stesso allontanandosi. «Ti faccio paura?»
Annuisco. «A volte si.»
Serra la mascella e anche i pugni. «Ti sei fatta male», stringe la presa sbiancando le nocche, solcando la pelle.
Vorrei fermarlo ma non ci riesco. Non posso. Non oso toccarlo e spezzare tutto quanto.
«Sei qui con me e ti sei fatta male.»
«Non è colpa tua.»
Nega. «È a causa mia se sei salita sulla scogliera nel panico.»
«Sono salita perché volevo farmi seguire.»
Schiude le labbra. «Che cosa?»
Confermo. «Volevo che salissi insieme a me. Volevo che la smettessi di avere paura. Volevo farti capire che... che non puoi trattare sempre tutti in quel modo perché non sei solo come pensi. Non puoi urlare addosso agli altri se sei tu quello a non sopportare un temporale.»
Ascolta, riflette e poi agisce abbracciandomi. Si china in modo da sfiorarmi il collo con le labbra. «Sono un vero idiota. Pensavo che...», soffia dal naso scuotendo la testa, sfiorandomi la pelle.
Mi agito. «Si, lo sei eccome. Non ti rendi conto che a volte anche gli altri possono metterti alla prova o alle strette e che non sempre puoi avere l'ultima parola. Ci sono volte in cui devi contare fino a dieci e poi reagire razionalmente. E io non sto dicendo di non avere la mia fetta di torto.»
Mi fissa con occhi trasparenti come acqua e poi affonda le mani tra i miei capelli avvicinandomi. «È un mio difetto.»
«Kay, io non ti sto giudicando come pensi e come mi hai urlato. Ti sto solo dicendo che sei umano anche tu. Come lo sono io...»
Deglutisco a fatica guardandogli le labbra.
«Adesso facciamo pace?»
Mi sfugge un sorriso. Con lui è così facile cambiare umore o perdersi.
Fa scivolare la mano sulla mia guancia. Il suo tepore mi avvolge più del plaid addosso nel momento in cui cerca di prendermi tra le braccia.
Ancora una volta mi oppongo. Lo faccio per innervosirlo, per fargli capire che non avrà mai il pieno controllo su di me.
Ma prima che io riesca a spiegargli che non possiamo più cedere alle tentazioni, avvicina le labbra alle mie.
Tutto svanisce. Il suo bacio non è solo delicato ma allo stesso tempo energico per come mi coinvolge insinuandosi sotto pelle in un brivido che mi agita il cuore.
Le sue labbra... sanno di miele, sono delicate, così morbide da volerle prendere a morsi. Mi trasmettono una forte sensazione di calore lungo la schiena.
Quando mi stacco, pensando di avere ceduto come una stupida, rimproverandomi mentalmente e sentendomi al contempo ebbra, mi batte il cuore così veloce che è come se avessi corso a perdifiato.
Riprendo fiato con le guance in fiamme ma Kay non demorde. Le sue mani mi scivolano lungo le cosce. Il suo tocco... è come essere attraversata dalla corrente. Io sono quel filo esposto alla sua straordinaria forza folgorante. Il suo tocco fa esplodere ogni particella del mio corpo.
Non riesco più a concentrarmi e rispondere al suo nuovo bacio mi sembra inevitabile.
E mentre io perdo lucidità lui l'acquista e, incitato dal mio respiro che continua a spezzarsi sotto il suo tocco così sfrontato e deciso, scende a suon di baci lungo il collo facendosi sempre più insistente e sensuale. Così tanto che fatico a riprendere fiato.
Provo a respingerlo ma è inutile. I suoi denti tirano la pelle facendomi gemere.
«Kay...»
Il mio corpo va in fiamme quando la sua mano continua ad avanzare tra le mie cosce e l'altra affondando tra i capelli, tenendomi ferma la nuca gli permette di impossessarsi ancora delle mie labbra chiedendo accesso con insistenza, assaporando i miei respiri spezzati da ogni suo gesto.
Mugolo riuscendo ad allontanarlo. «Kay... no.»
Mi guarda con occhi lucidi mordendosi le labbra che hanno il mio sapore. Ma le sue mani non si spostano, non si staccano.
Avvicina il viso. «No... che cosa?»
«Non...»
Tira il mio labbro inferiore. «Non vuoi perché sono io?»
Riesco a staccarmi da lui con le guance in fiamme e il petto scosso. Porto i capelli dietro le orecchie riprendendo fiato. «Non voglio perché non...»
Mi fissa. Scava frugando brevemente dentro prendendo da solo la risposta che cerca. «Quindi non sono io il problema?»
Nego stringendomi la coperta addosso. «Non è per te. In ogni caso non risolverei i problemi in questo modo.»
Fruga nel cofano tirando due felpe, passandomene una.
«Avevi le felpe e non le hai prese prima?»
«Non me lo hai chiesto», nasconde un sorrisetto indossando la felpa e poi anche un paio di jeans neri asciutti.
Indosso la sua felpa guardandolo male. «Sei...» emetto un verso di esasperazione.
Mi attira su di sé con uno strattone che non riesco a contrastare ritrovandomi a cavalcioni. «Vuoi sentirti dire la verità?»
Mi sta guardando fisso premendo le dita sulla mia schiena. La inarco e il suo petto si preme al mio. «Si», soffio accaldata.
Mi accarezza la guancia avvicinandomi. «Volevo vederti senza vestiti, esposta, forse anche in imbarazzo. Ma non volevo che ti sentissi in pericolo con me.»
Spalanco gli occhi. «Pensi che io sia spaventata per quello che potresti spingermi a fare?»
«Erin, sono più grande di te e non voglio che tu abbia problemi con me quando sei con addosso una felpa. Non voglio che pensi che io sia disposto a tutto pur di prendermi quello che voglio. Posso sembrare uno stronzo, uno privo di scrupoli, quello che vuoi... ma non mi approfitterò mai di te. Non mi spingerò mai oltre quello che puoi e vuoi.»
Sono stupita. Batto velocemente le palpebre.
«Adesso però rispondimi a una domanda», sussurra.
Deglutisco agitandomi su di lui. «Falla...»
«Dimmi se riuscirai mai a perdonarmi e a fidarti di me», mi sussurra labbra contro labbra.
Poso le dita su di esse mordendo le mie. Freme ma non si muove aspettando. «È possibile...»
Mi sorride. Gli basta come risposta. «Adesso rivestiti. Sono pur sempre un ragazzo e siamo soli, in auto...»
Controllo che i jeans siano asciutti e li metto tenendomi il plaid ancora addosso.
Mi appoggio con le testa al sedile stendendomi su un fianco. «Rimaniamo ancora un po'?»
Riflette un momento. «Litigheremo di nuovo?», chiede sistemando il braccio sul bordo del sedile.
Increspo le labbra abbozzando un sorriso timido. Incoraggiata mi avvicino appoggiandomi al suo petto.
Chiude il braccio in una morsa sul mio collo mordendomi il lobo.
Mi agito. «Noi litighiamo sempre», replico provando a mi volta a mordergli il braccio.
Sorride. Lo sento sulla pelle. «Te l'ho detto: preferisco litigare con te. Mi provochi più brividi tu di una scopata con un'estranea.»
Nascondo la piacevole sensazione che sento scaldarmi l'anima ferita. «Ma se scopi con le altre non puoi litigare con me», lo provoco.
Prende fiato. «Perché? Ti dà fastidio?»
Nego. Mento. Mi sento subito in colpa. Mi piacerebbe dirgli di sì, di non volere essere vista come una ragazzina con cui giocare però non ci riesco. Mi sentirei una stupita nel lasciare uscire simili pensieri.
Provo a staccare il suo braccio. «No, ma se preferisci la compagnia di un'altra a letto a me non ti devi avvicinare», dico riuscendo a far uscire la verità.
«Perché?»
Mi volto per capire se è serio. Non esprime alcuna emozione.
«Perché mi disgusteresti. Non voglio essere il giocattolo.»
Sorride. «Vuoi l'esclusiva...»
Sollevo il mento. «Mi sembra ovvio. Non condivido con nessuno.»
Continua a sorridere e questa sua reazione mi irrita e non poco. «Che c'è?»
«Ma noi non siamo una coppia. L'hai detto più volte», mi fa notare. Usa questa carta per farmi vacillare.
«Si, il mio era un discorso in generale. Se ci provi con me non devi farlo con altre o è finita già in partenza. Non voglio entrare in competizione e non voglio sentirmi la ruota di scorta. Credo di esserlo stata per troppo tempo. Ti spiegavo come la penso, tutto qua.»
Inspira. «Mi stai minacciando?»
«Perché dovrei?»
Mi stringe il mento. «Perché ci provo con te», mi mette alle strette.
Sorrido spingendolo. «No, tu giochi. E siccome non arrivi mai all'uva rispondi che è acerba.»
Sta già scrollando la testa. «Ti sbagli. Io arrivo sempre dove voglio, prendo sempre quello che voglio quando lo voglio. Ti sto solo lasciando il tempo di capire.»
Corrugo la fronte. «Capire che cosa?»
I suoi occhi lampeggiano. «Che in fondo sai di essere stuzzicata dalle mie attenzioni e non vuoi farne a meno. Inoltre il pensiero che io vada con altre ti ha turbata se non infastidita. Non puoi negarlo ma tranquilla... visto che mi sento buono, ti dico che...» si avvicina al mio orecchio. «Da quando sei tornata stai diventando ossessione.»
Arrossisco e non nascondo l'imbarazzo. «Quindi...»
«Quindi non andrò a letto con nessuna e non dovrai competere con qualcuno. Adesso smetti di fare l'orgogliosa e abbracciami o devo costringerti a farlo?»
Mi diverte. Mi stuzzica. Mi fa sentire quel fremito che mi spinge ad avvicinarmi.
Afferra il braccio tirandomi a sé. Mi ritrovo tra le sue braccia, avvolta dal suo calore e dal suo odore.
Ci guardiamo e avviciniamo all'unisono come due calamite. Mi attira bramoso di un contatto e quando stringo il suo viso freme schiacciandomi al suo petto.
Sento la pelle formicolarmi e strofino la punta del naso sul suo. «Che cosa vuoi?», mormoro.
«Se te lo dico ti scandalizzi.»
Sorrido e ne approfitta per baciarmi.
Mi divincolo. «Faremo tardi», dico guardando l'ora. Per tornare a Oakville ci vogliono circa tre ore e sono già le undici.
Il tempo è volato. Non ho neanche più guardato fuori o avuto bisogno di prendere una boccata d'aria.
Anche lui si accorge che siamo quasi oltre l'orario e passando sul sedile anteriore mi fa cenno di mettermi comoda.
Stropiccia gli occhi poi beve un sorso di caffè accendendosi una sigaretta.
Non credo di averlo mai visto fumare. Lo fa senza fretta, guardando per qualche minuto davanti.
Apro il finestrino godendomi gli ultimi attimi in questo posto di cui conserverò un bel ricordo, nonostante tutto.
Gettata la cicca chiude i finestrini mettendo in moto l'auto. «Pronta?»
Caccia in bocca una gomma alla menta. L'aroma emanato invade l'abitacolo.
«No, ma parti lo stesso.»
Durante il viaggio di ritorno non facciamo nessuna sosta e non parliamo riempiendo l'aria solo dei nostri respiri. Mi appoggio al vetro freddo. Il contatto mi brucia la pelle ma abbasso gli occhi che via via si fanno sempre più pesanti.
Mi rendo conto di essermi appisolata solo quando le sue dita mi sfiorano il viso e una folata di freddo mi investe.
Apro gli occhi ritrovando i suoi davanti, fermi e intensi. «Siamo arrivati?»
«Si, vuoi che...»
Mi alzo assonnata stropicciandomi un occhio. «No, faccio da sola.»
Guardo casa poi lui. Fuori è tutto silenzioso, fa freddo e nessuno dei due sembra volersi staccare.
È come se facendolo ci lasceremo per sempre. Come se questo fosse un addio e non un arrivederci.
Chiude la portiera appoggiandosi allo sportello. Incrocia la braccia guardando il ciglio della strada, l'incrocio a poca distanza. «Mi tolgo tra i piedi. Sembra essere tutto a posto», dice con una smorfia.
«Grazie», balbetto.
Annuisce salendo in auto e senza aggiungere altro mi lascia sul marciapiede.
Entro velocemente in casa chiudendo bene la porta poi senza fare rumore, pur sapendo di essere sola, salgo in camera.
Faccio subito un bagno caldo e rilassante rimanendo per circa mezz'ora immersa a riflettere sulle ultime ore passate e su ogni sensazione provata insieme ad un ragazzo che continua a rivelarsi una scoperta.
Una parte di me sa di non potersi fidare completamente mentre l'altra vorrebbe solo lasciarsi andare, prendere il meglio e non avere mai paura.
Mi sento confusa. Passo il palmo sul vetro appannato tamponando i capelli prima di asciugarli. Indosso una canottiera e un paio di pantaloncini mettendo in ordine il bagno, medicando meglio la ferita. Spengo la luce entrando in camera e sussulto.
Trovo proprio lui a fissarmi, curioso, gli occhi chiari, quasi trasparenti alla luce del lampione che filtra dalla finestra aperta. Mi guarda con quel filo di frustrazione misto a sicurezza standosene seduto sulla soglia. Si è cambiato anche lui. I suoi capelli sembrano ancora umidi e il suo profumo investe le pareti della mia stanza.
Lo fisso anch'io, sorpresa di vederlo dopo il modo in cui ci siamo salutati. Continua a scrutarmi dentro, sempre più forte, sempre più intenso.
Nessuno dei due sembra voler cedere, a parte le mie gambe che tremano come foglie.
Mi muovo come un automa accendendo la luce posta sul comodino scostando la coperta per dargli le spalle e avere il permesso di respirare. «Non ti chiederò come sei entrato visto che mi sembra evidente ma... che ci fai qui?»
Guarda fuori, tira la tenda chiudendo la finestra e si avvicina. «Dormo con te», replica con nonchalance.
Mi siedo abbracciando il cuscino. «Sai che ore sono?»
«Le quattro e mezzo. Non ti disturberò», si stende accanto.
Sospiro. «Perché sei qui?»
Fissa il tetto. «Non sei la mia ruota di scorta.»
Il cuore mi batte forte. Spengo la luce e mi stendo sotto la coperta fingendo di non avere sentito tutto quel trambusto dentro. «Sentirai freddo», gli faccio cenno di mettersi comodo, intuendo che non ha nessuna intenzione di andarsene.
Sembra rincuorato e togliendosi le scarpe si infila sotto le coperte. «Sono abituato a dormire nudo ma sono nel tuo letto e nel tuo territorio quindi rispetterò le tue regole. Volevo solo scusarmi per come me ne sono andato.»
Sorrido. Non mi vede. «Puoi togliere maglietta e pantaloni ma non scusarti, non serve.»
Stendendomi sul fianco, dandogli le spalle abbraccio il cuscino chiudendo gli occhi provando a rilassarmi senza pensare che il mio peggior incubo da bambina si è presentato nella mia stanza come un demone tentatore pronto a mettermi ancora alla prova.
Sento ogni suo movimento. Toglie il giubbotto, sfila via gli indumenti e poi si lancia sotto la coperta muovendosi nervosamente facendomi traballare.
«Bene, perché non mi sentirò in colpa per questo.»
Le sue braccia calde nerborute mi avvolgono avvicinandomi a sé. Mi stringe forte schiacciandomi al suo petto, baciandomi una spalla.
«Notte, Kay.»
«Notte. E ricordati che sei la mia piccola sirenetta.»

🖤

Come crepe sull'asfaltoWhere stories live. Discover now