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BRADLEY

In un rapporto non conta solo andare d'accordo. Non è una questione di caratteri compatibili. Quello che conta è l'amore. Un amore più forte del desiderio, della gelosia, della distanza. Implacabile, indomabile, intenso il senso di appartenenza ad una persona di cui inizi a non potere fare a meno.
E ti si insinua ovunque: sotto pelle, dentro le ossa, nel cervello, negli occhi, nel cuore. Lo senti dappertutto e non puoi di certo rinunciare al pezzo di paradiso che ti viene offerto. L'amore esiste. Non è sempre illusione o dolore. Può essere come una malattia. Ti colpisce all'improvviso con una macchia prima di avanzare in un fenomeno ben peggiore di una semplice orticaria.
Passo la mano sulla fronte strizzando leggermente gli occhi. Abbiamo appena sedato le fiamme che hanno colpito un piccolo boschetto costruito nelle vicinanze di un quartiere residenziale, a causa di alcuni pezzi di una bottiglia di vetro contenente ancora alcol, abbandonata lì al sole.
Sembrano assurdi determinati fenomeni ma nella mia carriera ho visto di tutto e così tanto da non meravigliarmi quando suona l'allarme e corriamo verso il pericolo trovandoci di fronte ad eventi di questo genere.
Non nego però di essermi sentito strano. È da questa mattina che mi sento ansioso. C'è qualcosa che non va. Lo sento proprio dentro. Forse sono solo paranoico, visti gli ultimi eventi. Oppure mi sto scoraggiando così tanto da vedere tutto nero.
Stan mi posa una mano sulla spalla. «Abbiamo finito qui. Non possiamo più fare niente per quei poveri alberi anneriti.»
Annuisco rimanendo ancora qualche istante a fissare l'intera aria che abbiamo appena spento, prima di seguirlo sul furgone. Stan prende il comando del mezzo mettendo in moto. Non mi dispiace lasciarlo guidare.
«Che giornata!», esclama più che stanco.
Anch'io lo sono. Ho i piedi in fiamme, i muscoli doloranti per le lunghe ore passate a spegnere i roghi e a salvare animali presenti in una campagna vicina in cui il fuoco stava arrivando. Ho anche fame e la voglia di farmi una lunga doccia nel mio appartamento e rilassarmi, starmene un po' da solo dopo avere fatto visita a nonna Gio' che non vedo da due giorni a causa del lavoro e dei suoi impegni.
Pulisco la fronte con un fazzoletto togliendomi la sporcizia, la fuliggine e il sudore. «Un vero inferno oggi», replico togliendomi i guanti e il casco, mettendomi comodo per riposarmi un momento.
Non ho dormito affatto questa notte. Continuavo a rigirarmi nel letto, a fissare il soffitto e poi quando è sorto il sole mi sono alzato e sono venuto a lavoro prima del previsto. Sentivo il bisogno di trovarmi in un posto che mi fa sentire a casa, circondato dalle mie cose, dai miei amici e colleghi.
«Che diavolo succede oggi? Prima ci chiamano per salvare una famiglia da una casa in fiamme in seguito a un violento litigio avvenuto tra i coniugi. Poi ci chiamano per salvare una fattoria e infine domiamo l'incendio di un bosco costruito vicino alle case di quel quartiere che puzzava di soldi. Hanno scelto un bel giorno», scuote la testa. «E io che pensavo di uscire in tempo per pranzare con la mia donna», si lamenta.
Non chiedo niente. Ormai non è una novità per me. Stan è partito per la tangente e non lo ferma più nessuno. E sinceramente, non mi dispiace vederlo così spensierato e pronto a mettere la testa sulle spalle con quella donna che lo sta trasformando nella versione migliore dell'amico che conosco.
Mi piace come ride adesso, come si diverte insieme a lei, come organizza in fretta qualcosa di dolce per renderla felice. Mi piace persino come si comporta. Sembra più maturo, concentrato sul futuro e su questo presente che gli sta donando tanto in così poco tempo. Spero non ne esca in alcun modo deluso o ferito.
«Manca solo mezz'ora», replico chiudendo gli occhi, massaggiando il dorso del naso.
«È partita male la giornata, non abbiamo ancora finito. Te lo dico io che ancora non abbiamo visto niente!»
Mi tocco le palle in un gesto scaramantico. «Non tirarcela addosso. Non ero io quello pessimista tra i due?»
Ride. «Si, ma ho come una strana sensazione e so che anche tu senti la stessa cosa. Ti sei presentato al lavoro prima del turno e non hai smesso di rimuginare su qualcosa.»
Annuisco per dargli la conferma. «Si, ma non voglio prevedere qualcosa di catastrofico. Voglio solo che questa lunga ed estenuante giornata lavorativa si concluda a breve. Ho bisogno di tornarmene a casa. Sono distrutto.»
Stan mi guarda la mano. «Hai tolto da solo il tutore?»
Faccio una smorfia sentendo le dita indolenzite e il bruciore al polso. «Mi toccherà rimetterlo tra poco ma non potevo starmene a guardare mentre tutti sgobbavate per salvare persone e animali.»
Il mio amico scuote la testa con disapprovazione. «Non dovresti peggiorare la situazione. Lo stai tenendo più del necessario perché non lasci guarire quelle maledette ferite. Dovevi tenerlo fermo, a riposo. Potresti avere peggiorato la situazione.»
«Si, papà», sorrido aprendo e chiudendo la mano.
Stan mi spinge innervosito dal mio atteggiamento strafottente. «Dico sul serio. Mi servi intero. Sai che non sopporto la tua capacità di sopportare il dolore così tanto. Preferirei vederti frignare piuttosto che implodere.»
Faccio una smorfia. «Appena entreremo in ufficio metterò il tutore. Va bene così? È un buon compromesso per te?», lo rassicuro.
«Sarà meglio per te che non peggiori!»
Posteggia sotto la tettoia, mentre gli altri provvedono per rifornire il furgone noi ci dirigiamo nell'ufficio per fare rapporto. Il terzo oggi.
Il nostro capo, Preston, si trova già dietro la scrivania, pronto a chiacchierare, a chiederci com'è andata. È un uomo alto, massiccio e spietato. La sua carnagione scura mi fa quasi invidia. È appena tornato dalla sua vacanza al mare e ha proprio l'aspetto di uno che ama la sua vita, che è fortunato e felice.
Ci accoglie con un ampio sorriso. «Tutti e due interi?»
Preston è un uomo sulla cinquantina dedito al lavoro e alla famiglia, ci ha sempre trattato come i suoi figli. Non ha mai nascosto le sue sensazioni. Non si è mai trattenuto. È sempre stato un capo con le palle ma anche un parente come uno zio per me.
Prima di entrare recupero il tutore per il polso stringendolo bene. Dovrò tornare in ospedale per un'altra lastra.
«Buongiorno capo», saluto come se niente fosse sedendomi sulla poltrona davanti alla sua piccola scrivania in noce con pochi elementi decorativi sopra. Una targhetta con il suo nome, un computer, una serie di cartelle, delle penne messe in fila ordinata, una foto della sua famiglia e poi intorno il pavimento scolorito, le pareti macchiate qua e là di umidità, una finestra con le sbarre che dà sul retro e qualche quadro con foto risalenti agli anni passati. Ci sono anche delle medaglie.
Guarda subito la mia mano. «Non dovresti lavorare», inizia aprendo una cartella, annota qualcosa poi torna a guardarmi apprensivo.
«Sto bene. Posso sempre usare la mano sinistra.»
Ovviamente è contrariato e non lo nasconde. «In ogni caso ti concederò dei giorni di riposo dopo oggi, ok? Mi servi intero! Ti vedo anche stanco quindi non si discute.»
Non posso rifiutare. Voglio evitare una sua sfuriata. «Certo, capo.»
Stan si siede accanto a me. «Posso avere anch'io qualche giorno di riposo?»
Preston lo guarda da sopra la montatura che tiene sulla punta del naso. «Mi sembra ovvio. Oggi avete fatto un gran bel lavoro considerando che la squadra era impegnata altrove ed eravate in pochi.»
«Solo noi due in realtà, signore.»
Preston sgrana gli occhi. «Che diavolo significa? Com'è possibile? Voglio tutti riuniti immediatamente!», urla furioso.
Il mio amico sta per replicare quando si sente l'allarme. Scatto subito in piedi per andare a controllare di cosa si tratta.
Stan mi guarda trasmettendomi bene il suo messaggio. Stiamo entrambi tenendo le spalle tese. La sensazione di pericolo si fa strada dentro e fuori di me quando uno dei colleghi ci avverte dell'incendio divampato nel negozio di una fabbrica di vernici.
«Andate! Che Dio ci aiuti», esclama Preston chiamando a raccolta tutti per correre ed evitare gravi incidenti. «Vi voglio tutti lì, nessuno escluso, salvo in caso di altri pericoli. Chiamate a raccolta chiunque, anche le ambulanze e la polizia per il traffico.»
«Merda!», sbotta Stan salendo dentro il furgone. «Te lo avevo detto che qualcosa non andava. Non è ancora finita.»
Ci spostiamo nella zona piena di strutture commerciali, in uno spiazzale enorme pieno di fabbriche e negozi di mobili, ferramenta e altro disposti l'uno accanto all'altro. Uno di questi, ha preso fuoco ed è quello che spaventa di più per la sua pericolosità. Con le vernici e le sostanze altamente pericolose non si scherza. Io e Stan lo sappiamo bene. L'ultima volta ce la siamo vista bella.
Mi faccio il segno della croce. «Salviamo il salvabile e torniamo a casa interi», dico.
Annuisce tentennante. «Niente cazzate. Niente atti eroici, mi raccomando», esclama preoccupato, in parte conoscendomi. «Siamo una squadra e possiamo dare tutti il contributo.»
Poso una mano sulla spalla di Stan stringendo la presa. «Se entro dieci minuti non riusciamo a domare le fiamme o succede qualcosa, tu torni dritto a casa», ordino.
Fa per protestare ma ho già preso la mia decisione e sa che ho la facoltà di farlo, sono un suo superiore al lavoro e niente può scavalcarmi. Neanche le sue preoccupazioni.
Scendo dal furgone lasciando sul sedile il tutore. Non posso lavorare indossandolo e in zona c'è proprio bisogno del mio aiuto.
Valuto nell'immediato la situazione ma sono già cosciente del fatto che ci troviamo davanti ad una circostanza complicata e nel bel mezzo di un grosso pericolo.
I ragazzi, sotto mio ordine, si muovono in fretta cercando di trovare un punto da dove azionare gli idranti mentre altri si stanno già occupando del traffico.
Osservo bene la struttura che ho davanti. Un magazzino a due piani. Il negozio da una parte, l'ufficio di sopra e sul retro, a distanza di qualche metro, il magazzino pieno di sostanze infiammabili e i mezzi posteggiati in fila.
Stan si appresta ad aiutare i due che stanno portando una macchinetta al piano inferiore.
Prendo una termocamera per localizzare il punto in cui è scoppiato l'incendio ed eventuali tracce termiche di persone che potrebbero trovarsi imprigionate all'interno del magazzino, nonché luogo di lavoro. Notando uno dei proprietari mi appresto a fare delle domande. «Il magazzino è diviso?»
«Si. Ogni stanza contiene un determinato tipo di vernice, olio o altro.»
Faccio una smorfia. Merda. Questa proprio non ci voleva.
«Mi preme farle sapere che abbiamo un impianto di sicurezza. È scattato non appena è divampato l'incendio e le porte del magazzino si sigillano per non lasciare avanzare le fiamme. Purtroppo...»
«Non avevate ancora previsto che in caso di incendio le persone sarebbero rimaste all'interno del locale», sbotto nervoso, accorgendomi dei due dipendenti chiusi in una delle stanze proprio accanto al magazzino in questione. Si trovano all'angolo, per il momento lontano dalle fiamme, ma non abbastanza.
«Al piano di sopra c'è qualcuno?»
«Ho chiamato tutti a raccolta. Oggi sono arrivato in ritardo non ho fatto in tempo...»
Scuse. Tutte scuse. «Ok, adesso ci pensiamo noi. Si faccia da parte e preghi che nessuno dei suoi dipendenti si faccia male», replico irrigidito.
Guardo la mia squadra. «Chiamate le scale, dobbiamo entrare subito in azione. Lo faremo dal piano superiore creando un varco. La struttura non è interamente di cemento. Le fiamme stanno superando il soffitto e raggiungendo le stanze piene di recipienti dalla parte opposta. È iniziato dal negozio ma sta avanzando in altre zone senza controllo provocando piccole esplosioni. Ci sono ancora due dipendenti all'interno e sono loro la nostra priorità. Fate evacuare l'intera struttura vicina e coloro che sono all'interno dell'altro magazzino. Le fiamme potrebbero propagarsi anche lì in fretta. Per terra ci sono segni di carburante e questo sarebbe solo l'inizio.»
Dall'altoparlante uno dei nostri colleghi in ascolto risponde: «Ricevuto!»
Lascio stare la termocamera. Guardo Stan. Mi capisce al volo. «Dobbiamo ventilate l'ambiente. Si è sigillato.»
«Provvediamo subito», dico muovendomi. «Tutti quei recipienti a fare da combustibile non mi piacciono», sibila Stan con una smorfia guardando di sbieco.
«Pensi quello che penso io?»
Annuisce. «C'è il rischio di un'esplosione con conseguente crollo della struttura. Abbiamo a che fare con una vera bomba ad orologeria. Un passo falso e salta tutto. Merda!»
Ancora una volta prendo in mano la situazione. Possiamo evitare che questo accada, mi dico. «Abbiamo bisogno di ventilare il locale e fare uscire il prima possibile quei due dipendenti. Poi ci occuperemo del resto. Fai tenere d'occhio quel dannato rifornimento. Fallo chiudere se necessario. Quello che non ci serve adesso è un incendio in una pompa di benzina.»
Tutto quel materiale presente in quel magazzino è altamente pericoloso e tossico. Non solo le fiamme, un'esplosione potrebbe significare la morte di molti colleghi, persone in particolare.
Nei paraggi sono anche presenti magazzini pieni di mobili di legno, pneumatici per l'officina di fianco e carburante presente dalla pompa di benzina adiacente. Sembra un effetto domino e inizia a farsi consistente nella mia mente la paura di un bruttissimo incidente.
Lo stomaco mi si stringe. Non abbiamo tempo da perdere, mi dico battendo le mani. «Dobbiamo rompere quei vetri e liberare i due dipendenti. Non importa di altro al momento. Che nessuno muoia!»
Stan mi ha già capito e, armati di ascia saliamo lungo l'autoscala per riuscire a fare un'apertura dall'alto dalla quale sollevare i dipendenti e poi occuparci dell'incendio che continua ad avanzare sempre di più al piano di sotto, avvicinandosi a quelle dannate stanze piene di recipienti contenenti liquidi di vario genere. La cosa che mi allarma è il propagarsi delle fiamme verso il magazzino vicino alla pompa di benzina.
Saliamo sulla piattaforma armati e pronti a tutto. Entriamo al piano superiore. Il fuoco sta avanzando anche qui. Sento forte la vampata di calore che ci raggiunge dal pavimento che è crollato al primo piano da un lato della stanza in cui ci troviamo.
Questa situazione si fa sempre più complicata e allarmante. Intorno a noi volano braci ardenti. Indico il punto nella quale creeremo un buco per calarci, issare e tirare fuori i due che urlano di sbrigarci.
Le fiamme iniziano a salire anche al secondo piano avvolgendo qualsiasi cosa. Sento un'altra vampata insopportabile ma non demordo. Sono abituato al fuoco.
Insieme ai colleghi continuiamo ad aprire un varco e quando finalmente riusciamo a creare una via di fuga, diamo il via alle manovre di salvataggio.
Essendo il capo, mi sento in dovere di essere presente e di partecipare attivamente. Inizio ad allacciare le imbracature tirando la corda per accertarmi che sia tenuta ferma dal rullo e facendo un cenno al mio collega, mi faccio abbassare dentro il cratere che abbiamo creato. Afferro uno alla volta gli uomini presenti nella piccola saletta, stretti all'angolo come topi.
Messi in salvo i due accaldati, spaventati e tremanti, ordino a tutti di uscire e mi assicuro che non ci sia nessun altro in questo piano. Ricordo le parole del proprietario e dopo oggi, spero proprio che chiuda questo posto perché non ha la minima idea di cosa significhi essere un capo o la parola sicurezza sul lavoro.
«Bradley», alza il tono Stan raggiungendomi.
Mi volto immediato come un cobra. «Che cazzo fai? Vattene da qui, è un ordine!»
Stan nega fermandosi a metà strada. «In due facciamo prima», dice seguendomi.
Lo fermo ancora tenendo una mano sul suo petto. «Non costringermi a buttarti fuori a calci o a cacciarti davanti a tutti.»
Sbuffa passando il braccio sulla fronte. Esita un momento poi comprendendo di non avere scelta, cede. «Ok, ma se non esci entro cinque minuti rientro e ti faccio il culo», dice testardo allontanandosi verso il balcone borbottando qualcosa.
Avanzo controllando le stanze una ad una. Qui il fuoco non ha ancora intaccato i mobili o qualsiasi elemento.
Non trovando nessuno torno indietro. Una nube di fumo, corposo, misto a braci, di colpo si fa strada con violenza sbarrandomi la strada. Mi appiattisco alla parete girando il viso. La radio emette un suono stridulo. «Bradley, tutto bene lì dentro? Hai trovato qualcuno?»
«No, non c'è nessuno.»
«Perché hai una voce diversa? Che cosa succede?»
Il cuore prende a battermi frenetico quando mi rendo conto della situazione.
«Sono bloccato, cercate di spegnere il rogo al piano di sotto immediatamente!»
«Che significa che sei bloccato?», mi chiede allarmato Stan. «Le fiamme stanno avanzando verso la pompa di benzina. Cazzo!»
Penso ad una soluzione. «Portate i camion sul retro e iniziate a spegnere l'incendio prima che raggiunga il rifornimento. Adesso!»
«Ok, capo!», replica una voce.
«Brad, che diavolo succede?»
Stan sta andando nel panico. Me lo sento. E non posso permetterglielo. Mi serve lucido. «Succede che il fuoco sta avanzando al piano superiore e ha particolarmente fretta. Mi ritrovo in una stanza, anzi in una piattaforma dalle dimensioni di un bagno, circondato dalle fiamme che hanno fatto crollare tutto attaccando il legno della struttura. Ecco che cosa significa. Adesso fa come ti ho detto e occupati delle persone!»
Tossisco guardandomi intorno. Saltare dall'altro lato per raggiungere il retro non è più possibile. Il pavimento è appena crollato. Non riesco a vedere bene quello che succede all'esterno.
Mi copro con la manica sentendo la vampata che si innalza come un'onda.
Si sente un forte frastuono alle mie spalle. «Dannazione! Tutti al riparo!», urla qualcuno nella radiolina.
«Sta venendo giù e le fiamme hanno quasi raggiunto il magazzino e il rifornimento. Tutti fuori!», urlo tossendo.
«Bradley, ce la fai ad uscire?»
Guardo davanti a me. Grazie ad una folata di vento intravedo una via di fuga. L'unica che credo di avere al momento. «Ci provo. In caso contrario metti tutti in salvo e non tornare indietro per nessuna ragione. È un ordine!»
Tossisco sempre di più appoggiandomi ancora alla parete. Il calore è intollerabile e il fumo non mi permette di ragionare a mente lucida perché mi entra forte dalle narici riempiendomi i polmoni. Ho dimenticato la maschera, che idiota!
«Se ti azzardi a morire proprio oggi giuro che mi ammazzo per venirti a trovare all'inferno e romperti le palle, amico. Ti voglio alle mie nozze, al battesimo del tuo figlioccio e in ospedale per il secondo parto di mia moglie!»
Sorrido togliendomi per un momento il casco. Guardo in alto e il tetto sta iniziando a creparsi. Ho solo una possibilità, mi dico.
«Stai correndo troppo, prima devi chiederle di sposarti o al massimo di venire a vivere con te. Samantha sa della tua propensione ad indossare i calzini di colore diverso per scaramanzia?»
Ride. Ma è una risata nervosa la sua. Lo percepisco anche attraverso la radiolina che sta fremendo dalla voglia di raggiungermi. So che è preoccupato ma ho la pelle dura e me la cavo benissimo da solo. Non è la prima volta.
«Sa tutto di me. E trova bizzarra questa cosa ma ha accettato anche i miei calzini spaiati. Mi ha persino risposto di sì senza esitare quando le ho chiesto di andare a vivere insieme, di provare per capire se possiamo avere un futuro.»
Sorrido. Sono felice per lui. Sento uno scricchiolio, alzo gli occhi e il tetto mi crolla addosso. Mi copro e vengo colpito da un pezzo di intonaco. Stringo i denti.
«Brad!»
Scuoto la testa togliendomi la polvere dalla divisa. «Sto bene. Samantha è fortunata ad averti. Vedrai che andrà tutto secondo i tuoi piani. Ma non metterle fretta. Tienila qualche volta sulle spine e preparale sempre la colazione. Quando pensavi di darmi la notizia?»
Sospira. «Volevo dirtelo qualche giorno fa ma attualmente non sei dell'umore e non voglio ferirti perché so quello che stai passando e non voglio sbatterti in faccia la mia felicità. Ecco perché non te l'ho detto. Ad ogni modo, ti terrò sulle spine io se non esci vivo da quel cazzo di posto. Devi tornare a casa, mi hai sentito? C'è una donna che ti aspetta e se la lasci anche tu da sola non si riprenderà mai più.»
Le parole di Stan alimentano la mia speranza persa per qualche istante. Erin. Erin non può restare sola. Nonostante sia distante dall'essere la mia donna, ho ancora l'opportunità di conquistarla. Il suo messaggio nel cuore della notte di qualche giorno fa, mi ha rincuorato, mi ha fatto capire che in fondo ci tiene a me, anche se a modo suo. Da allora abbiamo iniziato come un rito tutto nostro. Ci scambiamo qualche messaggio e poi ci auguriamo una buona notte e di avere una grandiosa giornata. Di solito succede e mi ritrovo a raccontarle quello che ho fatto, leggendo quello che mi scrive più che entusiasta.
Ripenso al suo ultimo messaggio. Mi ha chiesto se ci vedremo o se sarò ancora io quello distante. Non sono riuscito a dirle che mi dispiace. Le ho solo fatto notare che le sto dando tutto il tempo che le serve.
Non sono stato abbastanza dolce con lei nell'ultimo periodo, me ne rendo conto. Non so ancora se riusciremo a ritrovarci in qualche modo a metà strada. Ma so che mi manca. So che mi importa tanto di lei. So che se uscirò vivo da qui dentro la prima cosa che farò sarà correre da lei e abbracciarla, dirle che mi dispiace e che voglio essere per lei quello che in tanti non sono stati in grado di essere. Voglio dirle che l'ho pensata tanto. Voglio dirle che ho immaginato di portarla a vedere il parco acquatico, il museo e di fare una passeggiata in tutti i negozi di antiquariato. Ho pensato di portarla al mare, in montagna ovunque, ma insieme. Io e lei. Solo io e lei.
«Brad!»
Vedo tutto sfuocato. Le fiamme iniziano ad essere dense, alte, feroci e inarrestabili. La polvere soffocante.
«Brad! Cazzo, rispondi!»
«Arrivo...», dico tra un colpo di tosse e l'altro. «Sto arrivando.»
Indietreggio prendendo la rincorsa. «Stan, se non riesco a raggiungere il balcone non lasciare avvicinare nessuno. Devi dire a mia nonna che le voglio bene e...»
«Non le dirò un cazzo di niente a tua nonna. Mi ammazzerà se non torno con te. Tu adesso ti concentri ed esci da questo inferno e vivo, intesi? Adesso muovi il culo. Le fiamme stanno raggiungendo il tetto. Gran parte è crollato e sappiamo entrambi quello che significa. Per quanto riguarda Erin, ti conviene uscirne illeso. Non può più soffrire. Adesso sbrigati e non fare cazzate.»
«Non agitarti. Non ci sei mica tu in un rettangolo pieno di fumo e fiamme.»
«Mi sto cagando sotto per te.»
Sorrido anzi rido. Un'onda di calore si fa strada al centro sbarrandomi il passaggio ma scatto in avanti e corro prima del salto nel vuoto. Atterro sul balcone appena in tempo. «Tutti indietro!», urlo sentendo un enorme frastuono alle mie spalle.
I miei colleghi schizzano fuori dal cancello poco prima che il palazzo inizi a tremare e si disintegri.
Gran parte del tetto crolla e, come avevo previsto, per effetto domino, tutto viene giù insieme alle fiamme che cadono ovunque raggiungendo le stanze piene di liquidi infiammabili.
L'intera struttura trema ed io perdo l'equilibrio precipitando per un paio di metri nel vuoto, atterrando malamente a terra, troppo vicino alla struttura. Sento un dolore forte sulla spalla mentre rotolo contro la pietra.
«Al riparo!», urlo, urlo forte provando a rialzarmi nell'esatto momento in cui esce un gran polverone seguito da un rombo simile ad un tuono. Fumo e macerie volano nell'aria caricandola. E subito dopo, un enorme boato mi fa volare a distanza fino a schiantarmi contro qualcosa di solido che mi toglie il fiato.
Sento le sirene in lontananza. Poi urla, delle voci ma non riesco a muovermi, non riesco ad alzarmi e a dare il mio aiuto.
Mi volto vero il cielo adesso scurito dalla calotta di fumo.
Ed ecco che arriva il momento in cui inizi a rimpiangere di non avere fatto le cose subito. Rimpiangi il tempo perso a rincorrere un sogno inconsistente. Rimpiangi di non avere trascorso il tempo con la persona che ami. Rimpiangi di non avere prestato attenzione ai segnali, alle parole, agli sguardi. Rimpiangi di avere perso chi avevi sempre lì, a distanza di un abbraccio, di un bacio per rincorrere qualcosa o qualcuno che ti ha profondamente deluso.
Ed ecco che poi arriva. Silenzioso come un serpente, la fitta di dolore pieno di veleno che ti brucia le vene. Ti ricorda che niente dura davvero in eterno se non un ricordo lasciato, abbandonato nei meandri più oscuri del cuore spezzato.
Ed ecco che arriva la delusione, per non avere più tempo, forza e coraggio di rialzarti.
Ed ecco che arriva, fredda come la neve sulla pelle, il momento in cui capisco che il silenzio tra di noi si è fatto troppo assordante. Perché quando c'è silenzio, non puoi di certo ignorare quello che ti urla dentro. Ma resta tutto lì, incastrato e permanente come una cicatrice.
Della sensazione di avere perso l'occasione giusta non ti liberi di certo. Non quando sei sul punto di morire e hai ancora troppe cose da dire, da fare.
È proprio vero. Quando vedi la morte con i tuoi occhi, la prima cosa a cui pensi è proprio la persona che... ami.
Lo sapevo. Sapevo di amarla ancora prima di rendermene conto. Ho solo finto indifferenza perché ero attanagliato dalla paura un giorno di doverla lasciare andare. Lo sapevo. Sapevo di essermi perso, ma non sono mai riuscito a dimostrarlo.
«Bradley!»
Apro gli occhi e Stan lascia uscire il fiato. «Dovevi per forza fare l'eroe?», mi urla adirato nascondendo la preoccupazione.
Provo a sorridere ma inizio a vedere di nuovo tutto appannato. «Dille che la amo», sussurro privo di forza prima di tossire sputando qualcosa di caldo che mi sale lungo la gola.
Stan spalanca occhi e bocca. «Brad!», urla allarmato. «Brad!», mi scuote, si volta. «Mi serve un dottore, presto!»
«Diglielo!»
Non sento e non riesco a fare altro. Mi lascio avvolgere dal buio e da uno strano silenzio.

Come crepe sull'asfaltoWhere stories live. Discover now