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Sonia

"Tesoro, vieni ad aiutarmi un attimo" sentii pronunciare dalla voce di mia madre, la quale si trovava in camera mia da pochi istanti. Mi alzai svogliatamente dal divano, stiracchiandomi e gemendo infastidita dal brusco risveglio che mi era stato riservato. Mi ero sdraiata a guardare un film, finendo per sonnecchiare con un braccio appoggiato accanto al viso, una mano schiacciata al di sotto della nuca che, con il suo peso, aveva finito per farmi avvertire il formicolio.

Nel pomeriggio ero andata in piscina a nuotare per un paio d'ore ed ero stanca come non mi accadeva da tempo. L'unica cosa che avevo voglia di fare, in quell'istante, sarebbe stata quella di continuare a riposare. O magari chiamare Daniel. Peccato che mio padre, in un momento di collera inspiegabile, mi avesse ritirato il cellulare.

"Passi troppo tempo con quello lì ultimamente". Non avevo idea di a che cosa si stesse riferendo, dato che lui neppure l' aveva mai visto. Forse era perché durante la chiamata avevo pronunciato il suo nome o perché mentre uscivo, gli altri giorni, aveva fatto qualche giro di pattuglia per vedere con chi mi frequentassi. Dovevo imparare a prevedere le sue mosse per prevenirne le conseguenze. Il termine da lui adoperato, 'quello lì', mi aveva colmata d'ira.

Infilai i piedi nelle pantofole, bollenti. In casa c'erano trentadue gradi, e un raggio di sole le aveva riscaldate.
Giunsi in camera dei miei e vidi mia madre tentare di raggiungere, sulla punta dei piedi, l'anta dell'armadio più in alto, senza ottenere alcun risultato soddisfacente.
"Sonia, forza, aiutami! Non starai mica lì a guardarmi ancora per molto tempo, spero!" si lamentó del mio disinteresse nei suoi confronti.
"Arrivo. Un attimo" risposi frettolosamente, principalmente per placare la sua iraconda parlantina.
Sollevando una sedia accanto alla finestra, la riposi a terra in prossimità dell'armadio in modo che, salendoci sopra, non avrei avuto problemi a prendere la tanto desiderata valigia blu.
"Grazie".
"Ci voleva tanto per arrivare a pensare di prendere una sedia?" pensai.

"Perché fai le valigie se mancano ancora tre giorni alla partenza?" le chiesi.
"Ci vuole tempo. Ricorda che dobbiamo mettere tutti i capi di abbigliamento, tutte le nostre cose personali, le scarpe, i documenti, i tuoi libri...".
"Dove andremo ad abitare?". Mia madre si volse a guardarmi, ruotando rapidamente il capo in mia direzione, alla sua sinistra.
"Mia cugina ci presta casa sua. Lei si è trasferita in Canada, e non tornerà più. Quindi sarà la nostra casa".
"Non voglio andare ad abitare in una casa così. In una casa prestata. Vorrei una casa tutta mia" borbottai, non potendo che esprimere il mio disappunto incrociando le braccia.
"Sará tutta nostra. E di nessun altro. Lei non ha figli, solo un fidanzato. Lui vive a Ottawa, così lei è andata a viverci assieme".
"E com'è?'" chiesi incuriosita.
"Grandissima. Ha tre camere da letto, una terrazza, due bagni e persino una soffitta".
La soffitta. Subito mi vennero in mente tutti i pomeriggi, le serate passate a casa del mio ragazzo in soffitta, a guardare il cielo con il telescopio o a guardare film horror alla televisione o ad aprire scatoloni pieni di ricordi d'infanzia suoi e di sua sorella stipati in un armadio ormai sofferente gli anni, messo in un angolo e nascosto da una cartina del continente sudamericano, luogo ormai visitato più volte da Daniel e la famiglia. E solamente un sogno nel cassetto per la sottoscritta.

"Vedrai, un giorno ci andremo assieme" mi aveva promesso un giorno Daniel, vedendomi accarezzare con lo sguardo l'intera mappa, colorata di verde nei continenti e di sfumature d'azzurro presso gli sconfinati oceani Atlantico e Pacifico.
"E dove vorresti andare?".
"In Argentina. O in Brasile" si era abbandonato a confessioni.
"Ma sei giá stato in entrambi i luoghi!".
"Non importa. Giuro che con te sará come andarci per la prima volta".

"Allora, ti piace?" mi fece tornare in me mia madre.
"Eh? Ah, sì." pronunciai confusa.
"Menomale. Su, ora vai. Devo organizzarmi" mi disse, sventolando una mano poco sopra alla mia testa. Il suo corpo, ancora irto sulla sedia, svettava di una cinquantina di centimetri sopra la mia persona, anche se io e lei avevamo la stessa altezza.

"Devo aiutarti ancora?" domandai, sperando che la risposta fosse negativa. Non mi andava di chiudere tutti i miei vestiti, i miei oggetti più cari in un coso di plastica e pensare che sarebbero stati destinati ad essere rivisti soltanto dopo un lungo viaggio una volta arrivati in un nuovo posto. Mi piangeva il cuore quando pensavo che la casa che stavamo lasciando si sarebbe svuotata tutta ad un tratto privandosi, oltre che di oggetti privi di vita, anche della vita stessa.

"La venderete?"chiesi a mia madre.
"No, Sonia. Sarà sempre la nostra casa, quando torneremo per le vacanze" annunció, facendomi allietare. Accennai un sorriso, senza farmi notare. Non volevo far trapelare la mia gioia.

"Comunque vai pure. Me la cavo da sola per la valigia" sentenzió poi, accelerando i tempi con i quali avrei abbandonato camera mia per tornare in salotto.
Uscii dalla stanza. Una volta nel corridoio mi diressi di passo svelto verso il soggiorno, sdraiandomi nuovamente sul divano e addormentandomi in pochi minuti. Soltanto per quella volta nella mia vita fu possibile riposare al pomeriggio.

Viaggio...
Giornate di sole...
Calore...
Canottiere...
Sospiri...
Pensieri...
Felicità...
Attesa...
Momenti...
Sorriso...
Risate...
Lacrime...
Volare...

"Vieni, vieni da me!"
"Arrivo, eccomi! Sto arrivando".
Passo dopo passo...
Mi sto avvicinando...
Ti raggiungo...
"Non ti vedo, dove sei?".
"Sono qua!".
"Qua dove?".
"Di fronte a te?".
"Di fronte a me?".
"Sì, guardami! ".
"Non riesco a vederti...".
"Come no?".
"Non riesco... non riesco proprio".
"No..." .
"Vedo tutto nero...".
"Nero?".
"L'oscurità...".
"No..."

Mi svegliai di colpo sussurrando ripetutamente quest'ultima parola. Aprii gli occhi, appoggiando una mano sul cuore che pulsava rapidamente. Il mio stato d'animo era scosso, tormentato dall'incubo appena concluso.
Sdraiata sul divano, dove mi ero addormentata chissà quanto tempo prima, mi guardai attorno per verificare mi fossi davvero svegliata.
Guardai l'orologio. Le cinque e mezza. Avevo dormito per soli venti minuti e nonostante il lasso di tempo brevissimo avevo percorso, nella mia mente, un momento della giornata pari a circa una decina di ore.

"È incredibile. Mi è parso tutto così vero..." riflettei tra me e me. Avevo fatto un incubo. Non ricordavo nulla e, nonostante mi dispiacesse in parte, ne fui sollevata. L'unica cosa che mi era rimasta impressa nella mente era il fatto che mi ero trovata in un contesto reale, che poteva essere comune alla vita che conducevo. Quello che era improbabile era ciò che era successo. Era stato quello a trasformare uno splendido sogno in un momento di terrore.

Sentii una lacrima formarsi negli occhi. Sbattei le palpebre per farla cadere e lasciai che quella piccola goccia salata scivolasse lungo la mia tempia sinistra, lato su cui ero sdraiata, fino ad inumidirmi i palmi delle mani, schiacciati dal peso del capo.
"Si dice che i sogni si realizzino. Chissà se ciò accada anche per gli incubi" pensai tra me e me, richiudendo gli occhi e respirando profondamente.
Magari riaddormentandomi avrei sognato qualcosa di più appagante che potesse riappacificare il mio stato tutt'altro che sereno.

La storia prima della storiaWhere stories live. Discover now